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Francesco Storace confessa: "Lo sgarbo che Berlusconi spero mi abbia perdonato"

Francesco Storace
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No, non voleva proprio che mi dimettessi da ministro. Era appena esplosa la bufala del Laziogate- ben sette anni per essere poi tutti assolti - e Silvio Berlusconi era su tutte le furie. «Non puoi dargliela vinta». Un combattente. «Respingerò le tue dimissioni». E io te le ripresento, gli dissi al telefono. Aveva ragione lui però. Io feci fagotto lo stesso, non mi andava di inguaiare il governo a venti giorni dalle elezioni politiche. Lo spiegai anche al presidente della Repubblica, che allora era Carlo Azeglio Ciampi. Una sfida continua, il governo della Nazione con Silvio Berlusconi. Perché troppi poteri tramavano contro di noi. Eravamo nel 2006, io ero arrivato l’anno prima e stavo già nel mirino. Ma Silvio non ne voleva sapere.

Gentile e testardo, tenace nei suoi obiettivi, capace di politica molto più di tanti altri che pensavano di poter farsi beffe di lui. Anche quando - su propostadi Fini - mi nominò ministro venne a sapere che non volevo entrare nel governo. Perché avevo perso le regionali del Lazio, non avevo proprio alcuna voglia di farmi chiamare “eccellenza”. Ovviamente capitolai quando mi chiamò il Colle per informarmi del giuramento 48 ore dopo. Da Rimini mi precipitai a Roma. Quel sorriso del Cavaliere di fronte a Ciampi mi travolse il cuore.

 

 

 

«MUOVIAMOCI»

Era un tempo difficile, il carovita aggrediva gli italiani. Nel primo consiglio dei ministri a cui partecipai lo ascoltai scandire la frase «dobbiamo aiutare gli italiani. Lo faccia ciascun ministro. Voglio provvedimenti rapidi e utili». Era un ordine, una direttiva a voce, insomma «muovetevi». Anzi, «muoviamoci». Con i dirigenti del ministero della Salute puntammo sulla lotta al caro farmaci. Fino ad allora vigeva il decreto Bindi - le medicine potevano essere aumentate di prezzo una volta l’anno - il governo Berlusconi, su mia proposta, decise che i rincari potevano avvenire solo ogni due anni. Ci costò qualche lite con Farmindustria (che ci rimetteva) e i farmacisti (per via dello sconto previsto) ma poi tutti apprezzarono la manovra. E il premier ne era felice. Nel momento dei tagli, fu proprio Berlusconi - in vista della legge finanziaria- a trattare con Tremonti il buon esito della proposta di stanziare cento milioni annui per la ricerca oncologica. Applaudirono i più grandi scienziati e ricercatori del nostro Paese. Altra medaglia al petto del presidente del Consiglio. Fuori dalla sala del governo leggevo di conflitti nella coalizione, dentro quel salone del consiglio dei ministri non ne avvertivo traccia. Berlusconi e Fini stavano uno accanto all’altro, pensavo «se litigano lo fanno altrove».

 

 

 

IL METODO DI LAVORO

Noi ministri avevamo sempre al fianco - sotto lo sguardo vigile di Gianni Letta - Silvio Berlusconi. Ci teneva da matti all’azione di governo, ci incoraggiava. Me lo trovai particolarmente vicino nel momento più difficile, quando esplose l’influenza aviaria. Nel mondo, non solo in Italia. Ma da noi - con l’aiuto delle associazioni di un settore devastato per gli animali colpiti da quella pandemia agimmo meglio di altri. Con la ricerca, con l’isolamento dei territori infetti, con il sostegno alle categorie. Non una contestazione, quando Berlusconi ne parlava, se non quelle che ogni tanto riusciva ad organizzare un’opposizione livorosa (anche allora). Ecco perché, in morte di Silvio, mi sono permesso di scrivere di aver avuto un onore enorme nel lavorare come suo ministro. Perché c’era amore per l’Italia, affetto per gli italiani, straordinaria considerazione del sentimento patriottico che animava un popolo che si era identificato con un leader e con un governo. Proprio quel Laziogate, con le dimissioni da ministro, mi impedì di realizzare gli ultimi due provvedimenti: quello sulle liste d’attesa, in collaborazione con le regioni, e la norma per tutelare i nostri prodotti dall’aggressione cinese. «Si possono chiamarli in altro modo e non dazi?», mi chiese con un sorriso. Il comunicatore voleva comunicare al meglio una decisione che avrebbe fatto rumore. Ma non feci in tempo e spero che mi abbia perdonato. 

 

 

 

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