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25 Aprile, Luca Ricolfi: "Perché temo di più gli antifascisti estremi"

Pietro Senaldi
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Per sfuggire ai clamori del 25 aprile il professor Luca Ricolfi, uno dei più importanti sociologi italiani, autore, tra gli altri, di libri fondamentali come "Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale", "La società signorile di massa" o "La mutazione. Come idee di sinistra sono migrate a destra", si è rifugiato da qualche settimana nelle Isole Eolie. Stromboli, terra di Dio e di “Id du”, il vulcano, da sette anni buen retiro del politologo che è partito da sinistra per arrivare a una sincera stima per l’attuale presidente del Consiglio, maturata doverosamente prima della vittoria elettorale del 25 settembre scorso. Ricolfi rompe il silenzio perché preoccupato dal clima di crescente violenza, quantomeno verbale, dello scontro politico. Un climax che il professore addebita anche ai cattivi maestri della stampa, specie quella che dovrebbe essere più equilibrata.

 

 

 

Professore, siamo alla vigilia dell’ennesimo 25 aprile divisivo?
«Temo di sì, anche se ritengo probabile che le “sgrammaticature” arriveranno più dagli antifascisti radicali che dai rappresentati del governo. L’infortunio di La Russa, almeno a una cosa dovrebbe essere servito: d’ora in poi tutti conteranno fino a 10 prima di proferire verbo. O almeno così si spera».

I nostri padri costituenti avevano previsto che i gerarchi fascisti potessero candidarsi in Parlamento fin dagli anni ’50. Pur avendo vissuto la guerra civile erano meno antifascisti dell’attuale sinistra?
«Credo che il punto sia un altro. I padri costituenti sapevano perfettamente che l’essere stati fascisti non era la colpa di una minoranza ma il dramma di una nazione. Questo non poteva che attenuare la colpa di essere stati fascisti, anche nei confronti di chi – come i gerarchi – aveva avuto maggiori responsabilità nelle nefandezze del regime».

Non si dimentica troppo spesso che la nostra Costituzione è democratica oltre antifascista, visto che i due termini non sempre coincidono?
«L’antifascismo non è una categoria politica universale, la democrazia sì. In questo senso quel che c’è di duraturo nella Costituzione è la democrazia, non l’antifascismo.
Il problema, semmai, è che l’Italia Repubblicana non è mai stata una democrazia piena, perché c’è sempre stata una parte delegittimata o non titolata a governare. Nella prima Repubblica i comunisti e i nostalgici del fascismo, negli anni di Mani pulite gli impresentabili del Pentapartito, nella seconda Repubblica prima la destra berlusconiana, ora la destra di Giorgia Meloni. E infatti, se ci facciamo caso, la storia del nostro sistema politico è una storia ininterrotta di esami cui una parte politica sottopone l’altra. Il PCI di Berlinguer doveva mostrare la sua indipendenza da Mosca, Berlusconi risolvere il conflitto di interessi, Giorgia Meloni ripetere in ogni occasione la condanna del fascismo. Sotto questo profilo, non siamo ancora una democrazia compiuta (un problema che condividiamo con la Francia, dove da decenni vige la conventio ad excludendum verso un partito di grande seguito elettorale, il Front National dei Le Pen, padre e figlia)».

La pacificazione nazionale fu in realtà una scusa per tutti per nascondere la polvere sotto il tappeto?
«Pacificazione fino a un certo punto, a giudicare da quel che accadde nei primissimi anni del dopoguerra, non solo nel “triangolo della morte”: un pezzo di storia affiorato all’attenzione dell’opinione pubblica solo mezzo secolo dopo, con la trilogia di Giampaolo Pansa (Il sangue dei vinti, Sconosciuto 1945, La grande bugia). Né possiamo dimenticare che pure le vicende delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata hanno dovuto attendere circa mezzo secolo per essere ammessi nella memoria collettiva e nel racconto ufficiale. In breve: la pacificazione nazionale ha sempre avuto un lato inquietante, di ablazione di porzioni della nostra storia».

Il terrorismo rosso degli anni ’70 e ’80 in realtà non fu anti-fascista ma anti-sistema: oggi sarebbe anti-fascista?
«Non lo so, però la tentazione di usare l’antifascismo come bandiera di qualsiasi battaglia politica non è mai stata forte come oggi. Forse anche per una mancanza di fantasia: mi colpisce sempre molto il fatto che, 77 anni dopo la caduta del fascismo, e 55 anni dopo il ’68, non si riescano a inventare slogan un po’ più attuali».

Quando e perché si è rotto il clima di pacificazione nazionale e siamo ripiombati in una guerra civile a bassa intensità giocata sui media?
«Ci sono stati due grandi momenti di cesura: il 28 marzo 1994, quando l’immorale Silvio Berlusconi vince le elezioni, e il 25 settembre 2023 quando tocca alla fascista Giorgia Meloni conquistare Palazzo Chigi. Sul perché si sia rotto il clima di pacificazione io ho una mia idea, che forse non dovrei tirare fuori davanti a un giornalista: secondo me, una parte dei nostri guai derivano dalla faziosità della stampa, e più in generale dei media, che si è grandemente accentuata nella seconda Repubblica. Gli scambi di opinioni fra comuni cittadini sono molto più civili e tolleranti degli scontri cui i medesimi cittadini sono costretti ad assistere sui media. E il grave è che il trend è in peggioramento: gli spazi in cui discutere in modo informato e rispettoso si sono prosciugati quasi completamente».

La sinistra moderna, anzi l’Italia tutta, è vittima del mito del fascismo eterno concettualizzato da Umberto Eco?
«No, la gente normale è immune. Anzi, direi che è normale precisamente chi è immune da quel mito. Il testo di Eco sul “fascismo eterno”, un discorso pronunciato negli Stati Uniti il 25 aprile del 1995, è probabilmente il più ideologico (e quindi il meno lucido) fra i suoi interventi pubblici. In quel testo Eco elencava 14 indizi di fascismo primario (o Ur-Fascismo), dal tradizionalismo al complottismo, dal pacifismo alla “paura per la differenza”, dal sincretismo all’irrazionalismo, dal populismo all’uso di una lingua semplificata, che sarebbero ancora presenti fra noi, e che sarebbe nostro preciso dovere scoprire e smascherare “ogni giorno, in ogni parte del mondo”. Credo che ben pochi abbiano mai letto e preso sul serio la lista di Eco, ma l’attitudine a vedere ovunque tracce di fascismo ha attecchito eccome».

L’estensione del concetto di fascismo ormai ha raggiunto un’ampiezza tale che è fascista tutto quello che la sinistra radicale non ritiene conforme al proprio pensiero?
«Non so se sia solo la sinistra radicale ad abusare del termine fascista. C’è anche la sciatteria di pensiero, l’incompetenza lessicale, o più semplicemente ci sono i tic del linguaggio, l’abuso di aggettivi e sostantivi. Come mai per dire che qualcosa è molto cresciuto diciamo che lo ha fatto in modo “esponenziale”? Come mai improvvisamente tutto quel che viene pubblicizzato deve essere “sostenibile”? Per molti l’aggettivo fascista è un passepartout, sinonimo di cattivo, riprovevole, inaccettabile. Viene usato come arma contundente per etichettare tutto ciò che non piace, anche quando con il fascismo ha poco o nulla a che fare».

È questo che impedisce a chi non è di sinistra di dirsi anti-fascista, il fatto di aver sostituito l’eterna diatriba italica tra guelfi e ghibellini con quella anti-fascisti-resto del mondo?
«Un po’ è così, ma c’è anche un sentimento più profondo che complica le cose, non tanto a Giorgia Meloni quanto a chiunque conservi un briciolo di indipendenza di pensiero, comprese tante persone di sinistra. Se si arriva a dare del “camerata” a una persona come Valditara, se l’aggettivo fascista viene appioppato a chiunque non piaccia ai custodi dell’ortodossia antifascista, allora abbiamo un problema. Tanti italiani sono antifascisti nel senso classico (giudicano orribile e indifendibile l’esperienza storica del fascismo), ma non ritengono fascisti la maggior parte di coloro che sono bollati come tali. La loro esitazione a proclamarsi antifascisti deriva, innanzitutto, dal cambiamento di estensione del termine fascista. È come se dicessero, parafrasando liberamente Croce (“Perché non possiamo non dirci cristiani”): se questi li considerate fascisti, allora noi “non possiamo dirci antifascisti”».

Le istruzioni della Murgia per diventare fascisti, con il relativo fascistometro, il test per scoprire quanto sei fascista, in realtà sono un codice d’appartenenza per distinguere al contrario il gruppo di ottimati che comunque, anche quando sbaglia ed è illiberale, ha ragione ed è democratico per postulato?
«Sì, forse è così, ma provi ad applicare il fascistometro e vedrà che di ottimati non fascisti ne sopravvivono pochissimi, forse solo Michela Murgia. È praticamente impossibile, come hanno testimoniato tanti progressisti doc, non sottoscrivere almeno una delle 65 affermazioni del fascistometro. In realtà il libro della Murgia è la versione ad usum delphini del testo di Eco sull’Ur- fascismo. Ne eredita la curvatura ideologica, fornendone una versione ingenua e più digeribile, in cui gli indizi di fascismo passano da 14 a 65. Io l’ho usato nel mio corso di Analisi dei dati, per spiegare agli studenti come non si costruisce un test psicometrico rigoroso. Da questo punto di vista, quel libro è prezioso».

 

 

 

Il più grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, sosteneva che «uno dei maggiori danni del fascismo è aver lasciato in eredità una mentalità fascista ai non fascisti e alle generazioni successive». Concorda e secondo lei c’è della consapevolezza di questo negli antifascisti di oggi?
«Questa frase di De Felice viene quasi sempre riportata incompleta. In realtà, se non ricordo male, nella sua intervista sul fascismo (pubblicata da Laterza nel 1975) De Felice specificava anche in che cosa consistesse questa mentalità fascista: era fatta di “intolleranza, sopraffazione ideologica, squalificazione dell’avversario per distruggerlo”. Tutti tratti che, non da oggi, ritroviamo in una parte dell’antifascismo e del mondo progressista, incapaci di accettare i risultati del confronto democratico quando produce “mostri” come Berlusconi, Salvini o Meloni. È la dimostrazione che, quando ci si avvia sulla strada indicata da Eco e Murgia, il fascismo non solo è eterno, è anche ubiquo e universale, perché puoi credere di riconoscerlo dappertutto e in chiunque».

Perché gli ebrei vengono discriminati dalla sinistra in piazza il 25 aprile?
«Molti politici, probabilmente in buona fede, si sforzano di far credere che il problema sia di scarsa informazione. Chi contesta la partecipazione della Brigata ebraica alle celebrazioni del 25 aprile non conoscerebbe la storia, l’importanza del ruolo della Brigata nella Liberazione, o il fatto che contava anche volontari arabi. Ma temo che la verità sia più semplice e amara: nell’ostilità verso gli ebrei confluiscono l’antisemitismo di matrice comunista e l’ostilità verso Israele, colpevole di aver cacciato i Palestinesi dalla loro terra».

Il Berlusconi di Onna con il fazzoletto rosso al collo fu il solo momento di pacificazione della Seconda Repubblica? Non durò proprio perché non si voleva la pacificazione?
«Non lo so, teniamo presente che nel 2009 Berlusconi era ancora in luna di miele con l’elettorato, e la sinistra era ancora blairiana, perché la crisi del 2011-2012 era di là da venire. Forse fu solo un momento di respiro della tenzone politica».

Che significato hanno, nell’Italia anti-fascista e democratica di oggi, la vittoria della Meloni e la sua popolarità?
«Che, per l’elettore del 2022, il fascismo è una pagina della storia, e l’antifascismo è così ovvio e scontato che ha cessato di essere una discriminante politica».

Ha registrato un imbarbarimento della stampa e del circolo massmediatico nei confronti della Meloni dopo la sua ascesa al potere?
«Sì, ma l’imbarbarimento era già iniziato con il Covid e con la guerra in Ucraina. Mai la grande stampa è stata meno libera e pluralista che negli ultimi tre anni».

Perché la Meloni non si dichiara profondamente antifascista, levando ogni argomento per sempre all’opposizione? Forse perché non lo leverebbe?
«Non basterebbe. Direbbero che sono parole di circostanza, insincere. E alla prossima occasione pretenderebbero una nuova dichiarazione».

Si sta replicando lo schema che ha avuto come bersaglio prima Berlusconi per vent’anni e poi Salvini?
«Sì, ma adesso è meno facile colpire il bersaglio, perché Meloni è una donna, e sta facendo una battaglia culturale che la sinistra non solo non ha capito, ma sta alimentando con il suo opporsi a cose sensate, come la battaglia per la promozione del merito».

Le critiche all’uscita del presidente La Russa sulla banda di semi-pensionati uccisi a via Rasella sono state eccessive?

«No, sono state sacrosante, ma filologicamente errate. Gli si è fatto dire anche cose che non ha detto: affermare che via Rasella è stata una pagina “fra le meno gloriose” della Resistenza è molto diverso dall’affermare che è stata una pagina “ingloriosa”, aggettivo che La Russa non ha mai usato. Perché strafare, quando ce n’è già abbastanza per lapidare il malcapitato?»

Lei ritiene o avverte che questo governo di destra-centro sia impegnato in una sfida culturale per far cadere alcuni miti e dogmi del pensiero progressista?

«Certo, due dogmi in particolare: il politicamente corretto e il vittimismo».

È possibile un partito conservatore in Italia?

«C’è già».

Chi si prenderà l’eredità di Berlusconi?

«Meloni, suppongo, visto che il Terzo Polo ha fatto harakiri».

Il Terzo Polo è fallito per le personalità dei suoi leader o per mancanza di spazio politico?

«Le due cose sono connesse. Lo spazio ci sarebbe, ma senza un leader che lo rappresenti non è occupabile. E quando il leader c’è, come in Francia con Macron, non è detto che duri».

Perché il Pd ha scelto una svolta massimalista, inseguendo M5S? E perché Letta ha fallito?

«Letta non ha capito che Draghi e la sua agenda erano un pessimo testimonial, almeno in una campagna elettorale. Quanto al Pd, la svolta massimalista era l’unica via possibile per salvare non tanto il partito in quanto tale, che sarebbe sopravvissuto comunque, ma il suo status di primo partito della sinistra. È un riflesso pavloviano del comunismo: “niente nemici a sinistra”».

La Schlein in fondo è una Meloni di sinistra con la grande differenza che la prima è stata indicata e la seconda si è fatta il suo partito?

«Non è solo questo. Meloni – per ora – è in sintonia con il senso comune, ovvero con il modo di sentire della maggioranza degli italiani. Schlein è in sintonia con il modo di sentire del popolo di sinistra, che è solo una vasta minoranza».

Che consigli darebbe al governo e alle istituzioni per le imminenti celebrazioni del 25 aprile?

«Esserci, dire quel che c’è da dire, e non rispondere alle domande dei giornalisti». 

 

 

 

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