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Per la destra di oggi ci vorrebbe un Gian Carlo Fusco

Gian Carlo Fusco con Ugo Tognazzi

Un libro ripropone i pezzi del giornalista più inquieto e eversivo del dopoguerra. Ex pugile ed ex ballerino, frequentatore della mala, amava i liquori e la vita, il cinema e la tv

Francesco Specchia
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Immaginate un giornalistasdrucito, con un talento alimentato a grappa e cazzotti, uno che si muove –anzi, barcolla- tra una Milano deserta e una Parigi notturna.Pensate ad un incrocio tra Luciano Bianciardi nell’atto di piazzare il tritolo sotto la Torre Velasca; Tolstoj che esala ad alta voce palle colossali; e Jean Gabin, con lo sguardo a tapparella, immerso nelle caligini del mileu (l’ambiente della malavita marsigliese).

Ecco. Costruitevi quest’immagine di «maudit troppo pronto a fare a pugni», come diceva Gianni Brera. E subito affiorerà il fantasma di Gian Carlo Fusco detto l’«Incantatore», dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Sarà il caso, o sarà un’astuzia editoriale, ma è pure un fatto che il giornalista italiano più eversivo di ogni tempo nonché narratore dei costumi del Littorio sia ripubblicato ora nella raccolta Arpa e cannone (Nino Aragno Editore, pp 286 euro 30). Eppure è doveroso ringraziare il curatore della collana Luigi Mascheroni e il curatore del libro Dario Biagi, per aver restituito alla gloria dei posteri uno dei più talentosi giornalisti -scrittori italiani d’ogni tempo. Arpa e Cannone raccoglie gli articoli pubblicati a partire dal maggio del ’59 su Successo, il mensile diretto da Arturo Tofanelli che riprendendo il modello del settimanale Tempo si muoveva a passo di danza editoriale tra costume, spettacolo, approfondimento e cultura (su queste pagine Pasolini iniziò a pubblicare il reportage La lunga strada di Sabbia). Ossia tutti i settori in cui Fusco, elegante fraseggiatore col mitra, eccelleva nelle sue rubriche, soprattutto per Il Giorno.

CASINI E MARSIGLIESI Fusco, classe 1915, spezzino d’esportazione, è uno di quei casi di scrittori-giornalisti in cui il racconto della vita si accosta all’opera, e la supera. Fusco era un tracagnotto dal fisico massiccio, con baffoni uncinati, naso schiacciato e ecchimosi sparse sul corpo come tatuaggi: un fisico provato, a causa del passato di pugile durante il fascismo. Era stato pure ballerino di tip tap a Viareggio e soldato in Albania. Beveva un trentina di cicchetti al giorno, al punto che la ditta Nardini gli spediva il liquore a casa scrivendo come destinatario “Bottiglieria Fusco”.
Adorava la notte dove affondavano le storie di mala e gioco d’azzardo a cui aveva partecipato; e probabilmente si era reso davvero egli stesso responsabile delle rapine narrate nelle cronache del suo libro Duri a Marsiglia. Inoltre Fusco andava a mignotte, ma con arte. Era uno straordinario frequentatore di casini, al punto di diventarne -assieme al Montanelli di Addio, Wanda- il cantore nel libro Quando l’Italia tollerava (nella sua dedica all’amico e collega Giovanni Arpino si legge: «A Giovanni, che non ci veniva, perché la fidanzava aveva. Da Gian Carlo, che invece ci viveva, perché fuori nessuno gliela dava»). Sottopagato, assalito dalle miserie della vita quotidiana, Fusco era capace di colloquiare a pranzo col presidente del Consiglio; e a cena di circuire la padrona di casa per chiedere una dilazione al pagamento arretrato dell’affitto. Fusco era allergico al giornalismo stanziale: non riusciva ad inchiodarsi in una redazione, tanto che in dieci anni, senza pace vagò tra Il Mondo, L’Europeo, L’Espresso, Cronache, il Giorno. E, girellando di redazione in redazione, scuoteva le fondamenta stesse della cronaca attraverso un genere narrativo che in America, fino a da allora s’era riconosciuto solo in Truman Capote e che oggi chiameremmo “new Journalism” ma in salsa montanelliana.

Fusco aveva uno sguardo disincantato su tutto. Raccontava della vita notturna delle metropoli; in Milano quasi Parigi, per esempio, scriveva che «gli italiani non amano la Francia perché ne sono affascinati. Parigi, in fondo, è ancora la Mecca dei nostri borghesi». Nel pezzo La rivoluzione può attendere descriveva i tic ancora attualissimi della sinistra: «Mesi or sono, riuniti in assemblea a Roma, i più distinti intellettuali del Pci riesaminarono le loro posizioni. Fecero critica e autocritica. L’autocritica della critica e la critica dell’autocritica». Fusco assemblava nani e ballerine; e massaie riunite ai mercati generali a fine giornata per aggiudicarsi la verdura guasta al presso più basso; e salotti borghesi pieni di sciure milanesissime «dall’ormone affievolito» anche se per i loro ospiti non è mai detto. Per non dire dei letterati da basso impero che rimpiangono un passato diverso, «una volta, quando un poeta soffriva, la sua donna gli accarezzava la fronte, devotamente. Oggi, arriva con la scatola delle supposte».
Nel ’61 Fusco aveva raggiunto al culmine della carriera: lavorava per i giornali, il cinema (Vogliamo i colonnelli con uno strepitoso Ugo Tognazzi), il teatro e la televisione in special modo per la Rai milanese di corso Sempione (accanto a Cino Tortorella e ai fenomeni di Studio Uno: bellissimo il suo pezzo su Walter Chiari). Firmava persino i testi per le canzoni dell’amico Van Wood. Era in grado di dipingere ritratti e costruire storie a batteria, partendo da spunti e personaggi meravigliosamente liminali: banditi mammoni; vecchi giovanilisti; cantanti italomarsigliesi dai nomi d’arte improbabili («Bubù Le Carrillon»); disperati animalisti ante litteram; «ballerine del Nebarska» ospiti del festival di Spoleto che ostentano ben tre dentiere, «una da mattino, di un biancore moderato, una da pomeriggio, di un candore più deciso, una da sera semi-fluorescente». Materiale umano che oggi pagheremmo oro.
Tra le molte incarnazioni di Fusco c’è anche quella del narratore postfascista de Le rose del ventennio. Una roba che oggi farebbe parte della rivoluzione culturale evocata in senso conservatore dal governo di Giorgia Meloni, di cui l’antifascista Fusco probabilmente oggi sarebbe cantore con libertà di critica. In Arpa e cannone spicca infatti il suo pezzo Se l’antifascista mette voglia di votare Msi, in cui il giornalista racconta i giovani almirantiani: «Montanelli è preoccupato. L’Italia d’oggi non piace ai giovani. Molti di essi, che alla fine della guerra frequentavano dignitosamente l’asilo, stanno ripiegando sul passato regime. S’iscrivono all’M.S.I. Risalgono idealmente l’erta degli anni. Scavano fra le macerie morali e materiali dell’ altroieri, per raccogliere e spolverare le vecchie immagini neglette, le parole d’ordine derise, il corporativismo e la romanità». E aggiunge ancora il nostro anticonformista che «i giovani che allo scoppio della guerra scalciavano ancora nelle viscere materne, non credono ai racconti grossolani e buffoneschi degli anziani antifascisti, secondo i quali il regime non fu che una lugubre farsa. Anzi, a furia di ascoltarli, si sono convinti del contrario. E per dimostrarlo, s’iscrivono all’M.S.I.... Tutto ciò preoccupa Montanelli, il quale, sotto la sua buccia strafottente, è più sensibile di quanto s’immagini».

LE ROSE DEL VENTENNIO Ma a chi gli chiedeva se ci fosse davvero da preoccuparsi per i rigurgiti in camicia nera, be’, Fusco rispondeva di “no”. E sdrammatizzava, e alla fine tratteggiava il ritratto dell’italiano medio: «Che c’è da preoccuparsi? I più intelligenti, prima o poi, torneranno in qua. I fessi resteranno là. Finché, al primo 25 luglio che capita, non li ritroveremo più né là, né qua, né sotto, né sopra. O che un teli rammenti, Indro, i loro babbi?...». Bisognerebbe epigrafarlo ed esporlo ai festeggiamenti ecumenici delle prossime feste nazionali, a partire dal 25 aprile. Soltanto che, se fosse vivo, solo a pensarlo, credo che Fusco si metterebbe nella guardia del boxeur pronto a caricare il suo uppercut sinistro... 

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