Adriano Olivetti? Se dopo Mattei anche lui entra nel Pantheon della destra
Un tweet rilancia la visione dell'imprenditore che a Ivrea reinventò il lavoro e la fabbrica: «Nel suo ricordo costruiremo un'Italia che pensi in grande»
Il nostro Steve Jobs «ma molto prima» era una sorta di Lorenzo de Medici con la macchina per scrivere sotto il braccio. E con un’idea di fabbrica concepita come oasi di lavoro e di passioni: né ostaggio del capitalismo, né tantomeno dei sindacati. Questo era, in sintesi, l’Adriano Olivetti sopravvissuto alla sua leggenda.
Il fatto che ora Giorgia Meloni omaggi Olivetti in un tweet che non è un tweet ma una lettera d’intenti, è sì un dovere storico ma pure la chiave d’un mondo. «Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica. Nel giorno della nascita, non vogliamo dimenticare un grande imprenditore e visionario italiano. Anche nel suo ricordo» ha cinguettato la Presidente del Consiglio «costruiremo un’Italia che torni a pensare in grande». Si tratta, per la premier, di un programma ambizioso e a lunga gittata. Roba visionaria, alla Olivetti appunto. Il quale evocava concetti meravigliosamente semplici: ristrutturare la società distribuendola ricchezza; camminare verso la crescita del Pil a braccetto del welfare e della bellezza; reimpostare i pilastri stessi del nostro sistema produttivo. Eppoi lasciare ispirare il proprio percorso di etica industriale da L’ordine politico delle Comunità.
LA TERZA VIA Ossia dal manifesto olivettiano che, nel 1948, era partito dall’industria per arrivare in Parlamento inseguendo quell’utopia liberal-sociale del «comunitarismo» di Stato. Un’idea che L’Unità, feroce organo del Pci, definì «fallimento di tutte le teorie della collaborazione di classe e delle strane elucubrazioni che attorno a Comunità si sono venute enucleando», e basterebbe soltanto questo per riabilitarlo. Meloni (ma pure Matteo Salvini) si lasciarono invadere dalle idee tonanti di Olivetti in tempi non sospetti; e inserirono l’ingegnere di Ivrea in un Pantheon personale tutto da costruire.
E nel 2014, quando Fratelli d’Italia era al 3%- solo il virgulto d’ un’idea destinata a fare la rivoluzione - be’, Giorgia dichiarò olivettianamente che «il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande». La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Citazionissima da Olivetti. E, sempre Meloni, a margine della convention milanese dell’aprile del 2022 che aprì Fratelli d’Italia a tutti i conservatori e non solo, postò «Adriano Olivetti sempre attuale. Per non dimenticare un grande visionario italiano». Frasi assai assertive.
Sicché a sinistra - l’alveo che considerava roba propria l’ Olivetti nella sua irrisolta avventura parlamentare- se la presero.
E pure oggi l’opposizione mugugna; e afferma, dopo l’esaltazione di Enrico Mattei nel quadro di un neo piano Marshall africano che modifichi il corso della nostra politica energetica, che Meloni si stia appropriando di «uno dei nostri».
Ma non è esattamente così.
Oggi di Olivetti parlano le moltitudini, a cominciare dal più olivettiano di tutti, il Carlo Calenda che di Olivetti non ha ancora ancorato bene a terra le idee. Epperò l’olivettismo galleggiava da tempo nel bozzolo della destra sociale; stanava l’idea di una politica nuova, avulsa dai blocchi ideologici, oltre il socialismo e il capitalismo; rasentava sia Keynes che Henry Ford. Un mondo di bellezza e territorio, con orari ridotti e sorrisi larghi quanto i salari e il progresso tecnologico nei reparti. Dove lo stipendio dei dirigenti non poteva superare più di dodici volte la paga dell’operaio.
Dove tecnici da Nobel come Mario Tchou e Pier Giorgio Perotto spopolavano. Dove perfino poeti e intellettuali come Poalo Volponi, Giorgio Soavi e Ottiero Ottieri trovavano asilo.
E dove, soprattutto, gli operai venivano pagati e protetti molto più della media, e forniti di casa e di assistenza sanitaria.
In soldoni, Olivetti aveva insufflato nel nostro tessuto produttivo il frisson d’un sogno industriale in equilibrio su un sistema di welfare perfetto interno adottato in Italia oggi soltanto da poche realtà aziendali dalle lombardo -venete Luxottica, Diesel, Talent Garden alla parmigiana Davines all’umbra Cucinelli. Olivetti aveva acceso una torcia nel buio.
IL WELFARE PERFETTO E, appunto, anche dalle parti delle destra sociale, ne seguirono la scia. Il Secolo d’Italia, attraverso la penna del veterano Mario Bozzi Sentieri, trovò le pezze d’appoggio culturali nella «nuova riflessione sul comunitarismo», tema che aveva visto crescere, negli ultimi anni «interessi diversi, legati alle scuole d’oltreoceano, che fanno capo a Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Michael Sandel, Robert N. Bellah, Michael Walzer». Per poi ricordare che «nel primo numero di Elementi (rivista molto di destra e molto di nicchia ndr) uscito nell’autunno 1978, è Alain de Benoist a firmare un lungo articolo (Comunità e società) dedicato al sociologo Ferdinand Tonnies e alle sue teorie organicistiche. Tra le immagini che integravano quel pezzo lo spiccava la copertina della prima edizione di Comunità e società, pubblicata nei classici della sociologia delle Edizioni di Comunità, fortemente volute da Olivetti, «griffate con quella campana ed il motto “Humana Civilitas” che fu il suo simbolo politico». Ecco, magari quelle citazioni erano un tantino azzardate. Ma porsi come obbiettivo Adriano Olivetti, al di là delle colluttazioni ideologiche, be’ forse è un bene per il Paese...