La Russa, chi è dalla sua parte: sinistra "disarmata"
Quella di Ignazio La Russa su via Rasella la si potrà pure considerare una uscita a gamba tesa ma un merito indubbio ce l’ha avuta. Due elementi importantissimi erano infatti rimasti in ombra nelle polemiche della settimana scorsa sulle parole pronunciate da Giorgia Meloni alla commemorazione della strage nazista delle Fosse Ardeatine. Il primo “non detto” consiste nel fatto che non si può parlare delle Fosse Ardeatine senza collegarle, in un rapporto di causa ed effetto, all’attentato di via Rasella che ne fu l’origine. Quella delle fosse Ardeatine fu infatti una strage annunciata: i nazisti che occupavano Roma avevano fatto presente che, se qualcuno di loro fosse stato colpito, dieci italiani sarebbero stati giustiziati.
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Pur sapendo questo i partigiani del Gap, cioè di ispirazione comunista, decisero di provocare le spietate forze di occupazione, anche in contrasto con le intenzioni di altri partigiani di altre idee politiche. Le domande che subito ci si è posti sono state queste: quello compiuto dai comunisti era un atto utile ai fini della lotta in corso? Cosa si voleva dimostrare? Cosa lo giustificava? Non era giusto porsi il problema delle conseguenze e commisurare alla luce di esse gli eventuali vantaggi dell’azione terroristica? Perché gli autori e i mandanti non si denunciarono e autocostituirono dopo l’attentato, salvando la vita ai malcapitati che furono portati con ferocia bestiale alle Ardeatine?
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DOMANDE DIFFUSE
Queste domande, ed è questo il secondo “non detto” nelle polemiche di questi giorni, se le sono poste non solo storici appartenenti alla cosiddetta tendenza “revisionista” (quasi che la storiografia possa non progredire e non rivedere continuamente, come ogni scienza). A porsele sono stati anche, e forse soprattutto, storici e pensatori molto legati alla tradizione e ai valori della Resistenza. Va dato atto, ad esempio, a Norberto Bobbio di aver sollevato gli stessi dubbi e le stesse perplessità del presidente del Senato nel libro L’inutile strage di Vecellio e Bandinelli. «Sia ben chiaro», disse in quell’occasione Bobbio, «nessuno pensa di rimproverare i protagonisti di aver compiuto il loro spietato dovere... Ci sarà lecito almeno dire, ancora una volta senza il timore di essere accusati di essere fascisti o amici dei fascisti, che quei trentadue soldati tedeschi erano soggettivamente innocenti?...».
DUBBI RADICALI
Il libro di Vecellio e Bandinelli nasceva in ambiente radicale perché era stato proprio Marco Pannella a infrangere per primo, in un memorabile congresso del 1979, il muro di ideologia che impediva di occuparsi laicamente di questo, come di altri discutibili episodi della nostra Resistenza. Si era allora in un periodo di terrorismo rosso violento e di diffusa complicità a sinistra, soprattutto fra gli intellettuali. Ricollegandosi in qualche modo alle coraggiose parole di Rossana Rossanda che, nel terrorismo delle Brigate rosse e degli altri gruppi similari vedeva una «aria di famiglia», Pannella rincarò la dose e chiese ai comunisti di dire final«I comunisti lo sanno, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante ma per inasprirlo. Cerca le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio» mente parole chiare su quello che per lui era stato un vile è inutile attentato.
Pannella, oltre che da Bobbio, fu difeso da Giorgio Bocca, pure autore di una Storia della Resistenza in più punti critica. Il quale disse senza mezze parole che quello perpetrato a via Rasella era un «atto terroristico» e non certo una gloriosa pagina della lotta antifascista come il Pci voleva farla passare (probabilmente anche perché nel frattempo alcuni dei mandanti ed esecutori dell’attentato erano diventati importanti dirigenti del Partito, da Giorgio Amendola allo storico della letteratura Carlo Salinari).
Sull’inutilità politica dell’attentato insisté pure Giampiero Mughini facendo riferimento al libro Morte a Roma di Robert Katz. Quello dei partigiani, scrisse Mughini, fu «un bersaglio scelto a caso, uomini che non avevano in sé alcun elemento per assurgere a simbolo della prepotenza dell’occupazione nazista. Politicamente inutile perché non faceva compiere un salto di qualità alla Resistenza romana, che dopo via Rasella restò quel che era prima: opera minoritaria di poche decine di persone. Il tremendo botto non cambiò nulla nel vivere e nel sentire della città... Alcide De Gasperi si trovava nel collegio di Propaganda Fide, in piazza di Spagna, quando la bomba esplose. “Ne avrete combinate una delle vostre”, disse amichevolmente a un comunista (mi pare fosse Giorgio Amendola) che in quel momento si trovava da lui. Bandiera rossa, una componente importante della Resistenza romana, si dissociò subito dall’attentato, che giudicò sconsiderato».
Anche se l’Anpi e i comunisti più trinariciuti erano già allora sulla difensiva, quel che è da notare è che essi, in quegli anni, non avevano ancora l’egemonia che hanno oggi sul pensiero di sinistra. Ove, fra l’altro, c’erano studiosi e giornalisti che, pur essendo fortemente schierati politicamente, conservavano uno spirito critico che oggi semplicemente non sarebbe più tollerato. Che questa vera e propria involuzione di pensiero sia figlia della totale mancanza di idee politiche a sinistra a me sembra evidente. Così come lo è il fatto che l’antifascismo è lo strumento ideologico che con cui si riesce ad aggregare una parte politica che non ha più altri obiettivi se non la spartizione del potere.
DA REGIME A REGIME
In un approccio laico alla Resistenza altre verità sottaciute, anzi impronunciabili, andrebbero dette: ad esempio che i partigiani comunisti non combattevano i fascisti per la libertà e la democrazia ma per instaurare anche in Italia un regime socialista sul modello di quello sovietico, con l’Italia ridotta a satellite della Russia. Oppure, andrebbe detto che non i partigiani ma le forze alleate, in primis i tanto detestati americani, dettero la libertà al nostro Paese. Pagando, anche in vite umane, un prezzo altissimo. È qui che quella che viene detta storiografia “revisionista”, ma che sarebbe giusto definire storiografia pura, ha detto parole precise e non partigiane, non sottovalutando il valore della Resistenza ma contribuendo a renderla meno agiografica e quindi più vicina all’effettivo corso di quelle come di tutte le vicende umane.
CREARE L’ODIO
Basta leggere Giampaolo Pansa o, a un livello meno divulgativo, un Renzo De Felice per averne contezza. Il primo ha insistito sull’inutilità dell’attentato: «Non c’era alcuna necessità», ha scritto Pansa, «di compiere quell’attentato, visto che gli americani erano a due passi da Roma. L’azione di via Rasella fu dettata solo da motivi politici: i comunisti romani intesero dare un segnale forte perché erano accusati di attendismo». Quanto a De Felice, le sue parole, scolpite nella pietra, dovrebbero essere di monito a tutti: «Sotto il profilo militare il terrorismo era privo di utilità. Nella strategia comunista aveva però una duplice funzione: 1) provocando la reazione dei fascisti e dei tedeschi e, quindi, l’indignazione e l’odio popolare verso essi, scoraggiava i tentativi di pacificazione che, specie subito dopo l’8 settembre, trovavano sostegno tra coloro che paventavano le conseguenze che una lotta fratricida senza esclusione di colpi avrebbe avuto sul futuro del tessuto nazionale e tra chi, molto più semplicemente, non voleva essere coinvolto in una lotta che non sentiva o si preoccupava solo di passare attraverso di essa con il minor danno possibile; 2) creava attorno ai Gappisti comunisti che ne erano i maggiori protagonisti e l’applicavano soprattutto contro obiettivi molto noti e simbolici (tipico il caso dell’assassinio del filosofo Giovanni Gentile) che ne moltiplicavano gli echi, un alone di forza e di onnipresenza alla quale nessuno poteva sottrarsi che, oltre a funzionare da deterrente, esaltava agli occhi della gente l’attivismo, l’efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti rispetto alla “passività” degli altri partiti impegnati nella resistenza».