Enrico Mentana choc: "Italiani razzisti, quando ordiniamo una pizza..."
Ha smesso di votare socialista nel 1992, Enrico Mentana. Ma continua a definirsi "anarchico", come quando era uno studente al liceo Manzoni di Milano insieme a Michele Serra, altro big del giornalismo in forza a Repubblica, e a Guido Salvini, celebre magistrato. "Militavo in un piccolo gruppo che si chiamava Movimento socialista libertario - spiega il direttore del TgLa7 in una intervista a 360 gradi al Corriere della Sera -. A Milano eravamo minoranza: il movimento studentesco era stalinista, e Stalin gli anarchici li faceva fucilare. Ma era anche la Milano di Pinelli e Valpreda. Avevamo una passione per la sinistra anti-autoritaria, un’utopia romantica sconfitta dalla storia".
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Quella passione per la sinistra e i suoi valori, però, gli è rimasta. E forse anche per questo il suo giudizio su un tema caldissimo come quello del "razzismo degli italiani" è netto. "Mio padre era comunista. Mio nonno Enrico era un figlio illegittimo, nato in Calabria nell’anno della battaglia di Mentana, cui dovette il suo cognome - ricorda il direttore -. Conservo la copia anastatica del registro di Ellis Island del 1905, in cui gli Stati Uniti d’America respingono la richiesta di ingresso di Enrico Mentana".
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Da qui il confronto tra l'America razzista di inizio del secolo scorso e l'Italia di oggi, quella bacchettata da Paola Egonu. "Noi italiani siamo placidamente razzisti. Abbiamo quasi ripristinato la schiavitù: se ordino una pizza o una lavatrice non viene mai un italiano a consegnarmela". Citando in parte Luca Ricolfi, che parla di "società signorile di massa", Mentana sentenzia: "Ci dividiamo tra razzisti buoni che lasciano la mancia e razzisti cattivi che ringhiano: torna a casa tua".
Nel Sessantotto lei entrava al liceo Manzoni di Milano.
«Mio padre mi chiese: ma per che cosa manifestate? Anch’io avevo abboccato. Facevamo casino per strada così come le generazioni precedenti avevano giocato a biliardo o corteggiato le ragazze».
Suo padre era di destra?
Che storia ha la famiglia di sua madre?
«Mio nonno materno, Ettore Cingoli, ebreo marchigiano, conobbe a Torino la sua futura moglie Ada, ebrea genovese. Mia mamma Lella era del 1930, come Liliana Segre: solo un mese fa ho scoperto che venne espulsa lo stesso giorno dalla stessa scuola di Milano. Fu più fortunata: quando arrivarono i nazisti, i suoi la portarono a nascondersi sui monti delle Marche. L’8 settembre mio padre aveva vent’anni: si unì alla Resistenza, evitò per un soffio il plotone d’esecuzione anche se non se ne vantava mai, e dopo il 25 aprile andò a lavorare all’Unità, in cronaca. Il suo capo era Giorgio Cingoli, comandante partigiano e cugino di mia mamma. Fu lui a farli incontrare».
Suo padre non era un giornalista sportivo?
«Uscì dal Pci nel 1956, dopo l’invasione dell’Ungheria. E passò alla Gazzetta dello Sport».
Anche lei era comunista?
«Io ero anarchico. Diverso dagli anarco-insurrezionalisti di oggi. Con due compagni di scuola, Michele Serra, il bravissimo giornalista, e
Che idea si è fatto dell’assassinio di Calabresi?
«Che gli esecutori materiali siano davvero Bompressi e Marino. Altra cosa è che Sofri, dopo il comizio in morte dell’anarchico Serantini, abbia davvero detto “vai e uccidi”. Era un tempo terribile, e lo sperimentammo anche noi».
In che modo?
«Al Manzoni c’era anche Mario Ferrandi, detto Coniglio. Ricorda la foto-simbolo degli Anni ’70, l’incappucciato che a Milano si china a sparare con la P38? Quel giorno venne ucciso l’agente Custra, e a lungo si pensò che l’assassino fosse appunto l’incappucciato. Il giudice Salvini recuperò altre foto. Scoprì il vero colpevole. Convocò il nostro vecchio compagno di scuola, Coniglio, che non sapeva di essere stato lui a uccidere. E lo fece condannare».
Quando comincia per lei il giornalismo?
«Subito. Mi chiudevo nello sgabuzzino con un piccolo televisore per fare le telecronache. Era la modernità, era il futuro. Fossi bambino oggi farei lo youtuber o il tiktoker. Per me era una pazzia divorante. Ogni volta che conoscevo un giornalista mi emozionavo».
Chi la emozionava di più?
«Montanelli, anche se il suo finale di partita è stato mesto: l’Italia antiberlusconiana lo applaudiva, ma lui non poteva essere ridotto a quello. E poi Biagi e Pansa. Il mio preferito però era Giorgio Bocca. Scarno, secco, anticonformista. Né retorica, né birignao».
A 27 anni lei era già un volto del Tg1, in quota Psi.
«Divenni vicedirettore del Tg2, ma dovetti lasciare. Non ero adatto a fare il portabandiera».
Com’era Craxi?
«Un grande innovatore, senza la pazienza e l’istinto collegiale che deve avere un leader di sinistra».
Martelli?
«Il Robin di Batman».
Berlinguer?
«Un uomo del suo tempo, che ebbe lo zenith con i tre articoli su Rinascita sul compromesso storico e il nadir quando dichiarò guerra a Craxi sulla scala mobile. Fece in tempo a morire prima della sconfitta definitiva».
Quando incontrò per la prima volta Berlusconi?
«Quando nel 1991 mi propose di fondare il Tg5. Aveva appena litigato con Craxi, per il referendum sulla preferenza unica, e gridava: “Io stavolta a baciare la pantofola ad Hammamet non ci vado!”. Avevo 36 anni e dovevo inventare tutto: nome, sigla, studio, logo, redazione. Un sogno.
Per prima cosa reclutai Lamberto Sposini e Clemente Mimun».
È vero che la prima sera lanciò tre servizi e non ne partì nessuno?
«È vero. Ma battemmo il Tg1».
Quasi subito Berlusconi scese in campo.
«Andai a cena ad Arcore con Confalonieri, Letta e Gori, che era direttore di Canale5, a scongiurarlo di cambiare idea. Noi quattro eravamo tutti contrari. Ma lui aveva già deciso».
Chi è il demiurgo di Berlusconi? Confalonieri o Dell’Utri?
«Dell’Utri. La mente politica del gruppo è sempre stata lui».
E Confalonieri chi è?
«L’angelo custode che ti evita gli errori più gravi».
Gianni Letta?
«L’unico essere vivente che legge tutti i giorni la Gazzetta Ufficiale. Mai visto nella stessa persona tanto senso del potere e tanto senso dello Stato».
Antonio Ricci?
«Il grande beffardo, da cui accetti anche un calcio nei coglioni perché sai che è un calcio democratico: prima o poi arriverà pure agli altri».
E Maurizio Costanzo chi era?
«Un grande uomo della Prima Repubblica, con i suoi limiti e la sua carica inesauribile».
Lei arbitrò il duello del 1994 tra Berlusconi e Occhetto.
«Che non cambiò nulla. La verità è che la maggioranza della società italiana aveva fatto blocco contro la sinistra. Come sempre».
Nel 2004 la mandarono via.
«Dopo tredici anni capita, anzi è persino giusto».
Al suo posto andò Carlo Rossella. Michela Rocco di Torrepadula, allora sua moglie, commentò: bell’amico.
«Non ne ho mai voluto a Carlo. Era più affidabile di me».
Lei ha avuto una vita sentimentale da divo di Hollywood. «Ho avuto una vita sentimentale da laico. E ho avuto Stefano dalla prima compagna, Alice dalla seconda, Giulio e Vittoria dalla mia ex moglie». Ha lasciato o è stato lasciato? «Era finita. Ma sono sempre stati amori decennali. Compreso quello in corso». Come ha conosciuto Francesca Fagnani? «Venne a intervistarmi per una rivista d’arte. Mi incuriosì, e non solo per la bellezza. Era determinata, non arrivista. Una secchiona capace di studiare due notti di fila per far bene una cosa». Lei fondò Matrix, e la mandarono via pure da lì. Per il caso Eluana. «Ero convinto che non si potesse trasmettere il Grande Fratello Vip al posto di una storia come quella. Ma sarebbe accaduto comunque, magari il mese dopo. Non ho nessun sentimento negativo. Ora La7 è il mio posto ideale». Lei cosa vota? «Ho votato socialista dal 1975 al 1992; poi non ho più votato. Ma conservo gli ideali di progresso, di diritti civili, di giustizia sociale della mia giovinezza». Eppure si ha la sensazione che la sinistra le stia più antipatica della destra. «La sinistra non mi sta antipatica; la sinistra è antipatica. Anche questo lo sanno tutti, come la formazione della Grande Inter. È aristocratica, elitaria, convinta di essere la parte migliore, vocata a governare anche quando (quasi sempre) perde. È come la vecchia Y10: piace alla gente che piace; e dispiace a tutti gli altri. Ma la destra mi è estranea, e quella dei decreti rave e migranti ancor di più». Renzi non le stava così antipatico. «Nel 2014 Renzi era il fidanzato d’Italia. Ma si è preoccupato di vincere, non di seminare. E poi a vincere le Europee son buoni tutti, pure Salvini». Giorgia Meloni ha vinto le politiche. «E adesso, più che da Elly Schlein, deve guardarsi dalla componente maschile della sua maggioranza». Salvini e Berlusconi faranno cadere il governo? «Dovranno distinguersi di continuo, per garantire la propria sopravvivenza».
E il centro? «Il centro non esiste». Lei crede in Dio? «Sì. Anche se non potrei mai scegliere tra il Dio di mio padre e il Dio di mia madre. Non ci può essere un Dio giusto e un Dio sbagliato». Lei è cattolico o ebreo? «Tecnicamente sono cattolico, in quanto battezzato. Da ragazzo dicevo sorridendo che avevo la doppia tessera». Come immagina l’Aldilà? «Come Massimo Ammaniti: il Paradiso è là dove ritroverò i miei cani. E tutte le creature cui ho voluto bene. A cominciare dalle due che mi hanno messo al mondo».