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Jacovitti l'anarchico di centro che beffò i salami della sinistra militante

Benito Jacovitti

Il nome di battesimo, Benito e le vignette contro il '68 gli attirarono la censura del Pci. Ma anche Dc, Msi e Psi lo vedevano come un eversore. Giustamente...

Francesco Specchia
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 Se c’è una parola che ha tormentato e infiammato la vita di Benito Jacovitti che oggi avrebbe compiuto cent’anni, be’, quella è “fascista”. Dopo vengono “genio poligrafico” e “anarcoide di talento”. Ma la prima è “fascista”.

Il centenario di Jacovitti viene festeggiato da un volume curato dalla figlia Silvia e prefato da Vincenzo Mollica; il Maxxi di Roma ne sta preparando una mostra monografica; Vittorio Sgarbi a Sutri ne ha inserito i brandelli di genio – con l’opera Ho un vecchio reggipetto attorcigliato nella collettiva col titolo alla Soriano Triste, solitario y final in corso fino al primo ottobre; l’Italia intera, al tempo della “destra-centro”, insomma, ne omaggia l’opera. Eppure, quel sostantivo gli rimane appiccicato addosso. “Fascista”.
Tutto nacque da una storia del suo Cocco Bill negli anni 60: Jac s’inventò degli studenti particolarmente esagitati messi in fuga dalla maestra che li inseguiva armata di lazo, mentre il pistolero rideva a crepapelle commentando: «E che movimento!
Un bel movimento studentesco!». I movimenti studenteschi, il Pci e tutto il mondo che gli orbitava intorno non la presero bene. Da quel momento, all’improvviso, tutti si ricordarono del suo nome di battesimo: “Benito” non suonava bene come “Palmiro” e nemmeno, volendo, come “Alcide”.

NOMEN OMEN Sicché, per Jac, dall’essere considerato “anticonformista” a “fascista”, il passo fu breve. Dovette lasciare il Corriere dei Ragazzi qualche mese prima che anche Montanelli abbandonasse il Corriere della sera; e approdò sulle pagine di Linus, la “rivista di fumetti e altro”, accolto dal direttore Oreste del Buono, suo coetaneo e con lui di solito in affinità elettiva; dove però si ritrovò ad essere sempre più boicottato dalla redazione e spinto ad andarsene di nuovo.
«Io avevo fatto una critica contro gli estremismi di ogni colore, mentre loro volevano che lasciassi le frecciate di un certo colore politico e ne levassi altre di colore opposto» raccontò Jacovitti in una sua biografia. «Invece, le ho levate tutte e due!». Fu una grossa botta, per lui, l’esilio dalla rivista considerata punto d’approdo per il settore.
Ma prima ancora nel ’44, Togliatti, lo bollò come nemico dei lavoratori per alcune bizzarrie che s’era concesso sulle pagine stesse del Vittorioso: nel tratteggiare un mazzo di carte usò per le spade i baffoni ritti di Stalin, e per i soldi quelli degli amministratori rossi E, negli anni 70, fu la conferenza episcopale, a massacrarlo quando Jac aggrovigliò sulle pagine patinate di Playmen un esilarante kamasutra, il Kamasultra sceneggiato dal compare Marcello Marchesi; e poi c’era Amintore Fanfani, il quale ne teneva sempre nervosamente d’occhio l’estro, come si fa con i carcerati durante l’ora d’aria.
Coi vecchi fascisti, si sa mai.
Jac il fascista. Tutto salamoni, vermoni e lische di pesce.
Ecco, appunto, torniamo sempre lì. Fascista. Per tutta la vita così, pur se sottovoce, continuavano ad apostrofarlo i detrattori: l’erede cattivo di Saul Steinberg (anche lui un bell’anarcoide), il braccio violento della destra, un camerata simpatico che sapeva come pochi mirare al bersaglio in movimento. Fascista.
E Jacovitti, di tutta risposta, disegnava gratuitamente il manifesto elettorale per il missino Arturo Michelini, già direttore del Secolo d’Italia. Epperò, poi, Jac illustrava pure per Tango, l’inserto satirico dell’Unità diretto da Sergio Staino; e, quando gli avanzava il tempo, magari appoggiava la campagna divorzista di Marco Pannella. Jac sguazzava nelle boutade. Affermava di essere un «liberale atipico«; ma, per sua stessa ammissione, aveva votato socialdemocratico, socialista e perfino democristiano. Il critico Stefano Priarone sulle pagine del Foglio di lui diede la definizione tombale ripresa poi da Giuseppe Pollicelli: un anarchico di centro, meglio, un «anarco-conservatore» ma - aggiungo io – in un Italia in cui non c’era rimasto molto da conservare.

PIPPO E IL DITTATORE Eppure, pochi lettori attenti ricordano che Jac, negli anni 50, era stato l’autore della storia Pippo e il dittatore, che nelle ristampe successive a noi ragazzi degli anni Ottanta evocava sempre più il monologo pacifista del Grande dittatore; solo che l’Hinkel/Hitler di Chaplin qui si chiamava Astolfus Flitt e il saluto a braccio teso, i nazifascisti da operetta lo porgevano accompagnato dal segno delle corna. Eppure fascista era, e fascista rimaneva. Eppure il suo Diario Vitt è stato il messale laico di tre generazioni. Eppure Jac veniva direttamente dalla scuola del Travaso fatta da irregolari siderali come Flaiano, Gec, Campanile, e un giovanissimo Maurizio Costanzo. «Jacovitti è uomo dalla fantasia a quaranta gradi che accatasta, ammucchia, pigia in una tavola centinaia di strambe persone...», così lo definivano. Eppure Jac era lo spirito della stessa Italietta del boom gonfia di difetti e di virtù.
Restiturlo alla memoria collettiva, in un paese di smemorati è un dovere civile...

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