Walter Veltroni pubblica un giallo? E sui quotidiani...
Un tempo le “terze pagine” dei giornali erano qualcosa di serio ed erano un po’ come la vetrina di lusso dei negozi. In cultura scrivevano infatti solo le firme di “chiara fama”, scrittori e saggisti che si erano conquistati onori e gloria per i capolavori che avevano pubblicato. E si erano accreditati, con essi, nei circoli letterari più prestigiosi e nelle accademie prima ancora che sulla carta stampata. Tutto recensioni, interventi, inchieste - rispondeva a criteri di ricercata (per quanto mai raggiungibile) “oggettività”. Come dimenticare gli elzeviri e gli articoli di Matilde Serao, Croce, Gentile, Prezzolini, Papini, Alvaro, di premi Nobel come Pirandello e Grazia Deledda, oppure (forse ultimo esempio di grande giornalismo culturale) gli “scritti corsari” di Pasolini?
Oggi, dopo annidi “egemonia culturale” di sinistra, chi, venendo da un altro mondo, aprisse le pagine culturali dei giornali avrebbe sicuramente una visione distorta, per non dire ridicola, dello stato della cultura nazionale, con veri e propri “eroi di carta”, i soliti noti, a farla da padrone. Spesso il loro principale merito letterario è quello di far parte di una sorta di “cerchio magico”, chiuso e autoreferenziale, di essere amici degli amici. E infatti chi legge più quelle pagine ridotte, tranne rare e pregevoli eccezioni, a un marchettificio senza qualità? Chi, se non appunto gli amici che hanno necessità di autoriconoscersi nel gruppo, pardon nel branco, di chi crede di contare e si attribuisce fama e potere? Prendiamo il caso di ieri: Repubblica e Corriere della Sera, che in teoria dovrebbero essere in concorrenza fra loro, non hanno avuto dubbi, seguiti da altri giornali minori, nel consacrare Walter Veltroni come grande romanziere, aprendo la loro “terza pagina” con l’annuncio e le anticipazioni del suo ultimo libro a tutta pagina (con tanto di richiamo in prima sul quotidiano milanese).
GIORNALISTA DI PARTITO
Si tratta di un poliziesco dal titolo quanto mai ambiguo di Buonvino tra amore e morte, e lo pubblica Marsilio. In verità, il caso del fondatore del Pd è leggermente diverso da quello dei vari Carofiglio, Murgia, Saviano, che pure riempiono le pagine culturali dei nostri giornali a ogni stormir di fronda. Veltroni, infatti, un posto nella società se lo era conquistato già in precedenza, come giornalista di partito e poi come politico. Successivamente, mandato alla malora il Pd che aveva creato e accortosi di non riuscire più a raggiungere quei traguardi politici a cui era abituato (per colpa dei “fratelli coltelli” di partito), il nostro ha deciso di buttarsi a capofitto nella letteratura. Non lo ha fatto però con l’umiltà di chi riscopre ad una certa età una sua passione, per anni accantonata, e si mette a coltivarla più o meno come si fa con un hobby, seppur di qualità come in questo caso. Lo ha fatto con la pretesa di essere il primo anche in questo campo non propriamente suo. Che un grande scrittore lo sia, stando agli esperti con un minimo di onestà intellettuale che hanno letto i suoi libri precedenti, non sembrerebbe proprio: ripetitiva, prevedibile, banalmente sentimentalista o buonista, sempre attenta a strizzare l’occhio alle mode culturali, la sua letteratura non raggiunge certo la sufficienza.
IL SOSPETTO
D’altronde, la prolificità stessa con cui Veltroni produce dovrebbe indurre qualche sospetto: se Italo Svevo ha scritto solo tre libri nel corso della sua vita, Veltroni tre volumi li produce in un anno (e forse sto esagerando per difetto). Per non dire della mancanza di identità che viene fuori dal suo lavorio: romanzi di fantasia, romanzi storici, gialli, sceneggiature di film, Veltroni sembra non volersi far mancare nulla. Ed è come se pescasse a strascico, cercando di raggiungere i pubblici più diversi pur di fare cassetta. Se vanno di moda le serie dei commissari, lesto Veltroni se ne inventa uno, come è il caso di questo Buonvino che è protagonista del libro appena uscito. Fra l’altro, le sue inchieste, giusto per non farsi mancare nulla e mandare qualche messaggio politico, sono ambientate nell’Italia del 1944 in balìa della “guerra civile” fra fascisti e antifascisti. Nessuno vuol togliere a Veltroni il gusto di scrivere a iosa quel che più gli aggrada, ma forse lui per primo dovrebbe fermare la “macchina propagandistica” che accompagna le sue uscite facendolo passare per un novello Vargas Llosa o un Kafka redivivo. Tanta bava è veramente esagerata. E soprattutto non è sincera, ma un atto di servilismo verso colui che, con il suo potere politico, ha deciso, e forse ancora decide, tante carriere nel mondo culturale o sottoculturale italiano. Un po’ di pudore di recensori e recensito non guasterebbe, anche perché, per dirla con Totò, “ca nisciune è fesso”. E gli italiani sanno benissimo che certe “fame usurpate” non reggono alla prova del tempo, che è quella che sola vale in questi casi.