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Buttafuoco, "perché Berlusconi attacca Meloni. E sull'Ucraina..."

 Pietrangelo Buttafuoco

Pietro Senaldi
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«Giorgia è il passaggio ultimo, una cosa completamente nuova, la rivalsa epocale della maggioranza silenziosa sulla minoranza egemone. La consacrazione attraverso il potere del successo del popolare Giovanni no Guareschi sull’elitario Alberto Moravia».

Ma non era stato già Berlusconi, trent’anni fa, a dare per primo voce a questa maggioranza silenziosa?
«Forza Italia fu un primo tentativo, costretto a nascondersi oggi dietro una serie di “ista”, europeista, atlantista, liberista, pluralista, per edulcorare il messaggio e non spaventare il pollaio, che però si terrorizzò lo stesso e gli fece una guerra senza requie. Il progetto della Meloni però è diverso da quello del Cavaliere, lei punta a un bipolarismo senza compromessi, senza bisogno di farsi concavi e convessi. E poi Giorgia non è condizionata dal conflitto d’interesse, “non è ricattabile”, come ha chiarito dal primo minuto del governo al suo alleato».

È per la fatica di accettare una donna al suo posto o per allergia ideologica verso la destra che Berlusconi cosparge di trappole il sentiero della premier?
«Non c’è nessun pregiudizio ideologico da parte del leader azzurro. Quanto a quello sessista, lo dicono a sinistra, dove coltivano un’ermeneutica a singhiozzo rispetto al Cavaliere, statista quando a loro conviene, puzzone quando lui si prende spazio. Più semplicemente, Berlusconi agita la maggioranza per rivendicare spazi politici e difendere gli interessi suoi e di Forza Italia».

 


 

Però le distanze tra Berlusconi e Meloni sulla guerra in Ucraina sono sostanziali...
«Allude alla critica a Zelensky a urne aperte, una settimana fa? Il giorno dopo, se ben ricorda, il presidente americano Biden ha dichiarato ufficialmente che il sostegno a Kiev non può essere eterno. Forse Silvio, da mago della politica estera qual è, vede lontano e si sta ritagliando un ruolo di mediatore al tavolo della pace, per rappresentare l’Europa con la Merkel e altri statisti dei quali Putin si fida».

L’ineffabile Pietrangelo Buttafuoco, sintetizzato dal nome e dal cognome meglio che da ogni aggettivo, concreto e duro nelle sentenze, empireo nella prospettiva analitica, incessante, pervasivo e urticante nel pensiero e nella sua esposizione. Sempre politicamente inafferrabile, malgrado la lunga militanza nel Movimento Sociale, e quasi sempre d’accordo con Renzo De Felice, il più grande studioso del fascismo, al punto da capire che «quel Ventennio non fu destra ma altra cosa, tant’è che partì dal socialismo e lì finì, lasciando però l’Italia per settant’anni vittima di un equivoco storico che si è sciolto solo con l’entrata della Meloni a Palazzo Chigi sotto le insegne di un neo-conservatorismo, che è di fatto l’opposto del fascismo, che nutrì sempre un disprezzo assoluto per lo spirito borghese, il moderatismo e le idee liberali».

Giornalista sopraffino, troppo colto e libero per il mestiere, Buttafuoco dichiara che la professione non lo ha voluto, si sente un esule e si definisce ormai un artista. Ma non di quelli che vanno a Sanremo, «dove è bellissimo constatare che si sono dati appuntamento sul palco più nazional popolare che ci sia tutti coloro che avevano detto che se ne sarebbero andati se avesse vinto la destra e hanno cantato insieme “Fratelli d’Italia”, il nome del partito della destra. Il Festival è un serraglio nel quale si esercita la comitiva progressista, che si conosce tutta, si autolegittima, si premia, si protegge. Con il Paese reale che guarda ma va da un’altra parte mentre la comitiva neppure se ne accorge, persa nei suoi riti consolatori e autoreferenziali, come per esempio quello delle primarie del Pd».

Però Benigni, sarà stato perla presenza del presidente Mattarella o per l’età, è stato più sobrio del solito? «Diciamo che la situazione è ulteriormente peggiorata, ora siamo nell’epoca del conformismo assoluto». Che per Buttafuoco è «il percorso obbligato attraverso il quale la sinistra persegue l’obbedienza al potere e la soggiogazione di tutti al pensiero unico, rigorosamente il suo».

Il centrodestra ha vinto per distacco le elezioni in Lazio e Lombardia: segno che le divisioni interne sono un suo punto di forza?
«I partiti del centrodestra hanno la caparbietà di restare distinti e litigiosi però uniti nella lotta ma la loro vera forza è l’elettorato. Come dimostra il caso Moratti, chi vota centrodestra, appena sente l’odore di sinistra, scappa».

Non sarà che il centrodestra riesce a sorvolare sulle divisioni interne perché è intimamente meno autoritario della sinistra?
«Ma questo è scontato. Il centrodestra è anarchico e individualista e riesce a navigare nelle differenze. Ogni testa è un tribunale, il che è il vero antidoto al totalitarismo. La sinistra invece non regge la minima differenza. Ora è in crisi perché si è resa conto di aver dato battaglia alla realtà e aver perso ma il suo dogmatismo le impedisce di cambiare schema».

La partita vera però la Meloni se la gioca in Europa?
«La partita vera non ha confini.
Certo è vitale per lei riuscire nell’operazione di staccare i Popolari Europei dai socialisti per farli entrare nell’orbita dei conservatori, un’alleanza peraltro più naturale».

Può farcela?
«Sì, soprattutto se i popolari riusciranno ad affrancarsi dalla sudditanza psicologica e culturale che li lega alla sinistra. Ho notato che, per tenere insieme il Pd, pensatori e quotidiani progressisti spacciano la favola di un’alleanza storica tra Dc e Pci. Però poi quando Repubblica ricostruisce l’albero genealogico dei dem, come ha fatto nei giorni scorsi, li fa risalire, nei vari passaggi, al simbolo del Pci e scorda quello della Dc. E tutti zitti, a confermare la subalternità dei moderati verso i massimalisti».

Un altro tetto di cristallo che la Meloni deve infrangere?
«Dopo quello di aver fatto capire perfino a Letta e Bonaccini che la destra può governare con pari dignità e legittimità della sinistra, nonché con migliori risultati, e dopo lo smacco di essere lei, di destra, la prima donna a Palazzo Chigi, evento che resterà a lungo un incubo ideologico per la sinistra».

Durerà il governo?
«Dura, anche se i problemi non mancheranno. Ma nessuno nel centrodestra rinuncerà mai alla soddisfazione di vedere la faccia di quelli che pensavano che il potere fosse cosa loro e adesso sono fuori».

Dura per mancanza di un’opposizione unita?
«Sì, ma anche per la bassa qualità dell’opposizione in se stessa, costretta ad attaccarsi a Sanremo o a Cospito per mettere in difficoltà il governo. E poi sarebbe davvero difficile spiegare agli italiani un cambio di maggioranza dopo un’indicazione così netta, appena ribadita in Lazio e Lombardia».

Consigli per il Pd?
«Per carità, i dem sono bravissimi a farsi male da soli. Li vedo ancora sotto choc per la perdita del potere».

Vanno d’accordo tra loro solo sulla guerra...
«Dove infatti hanno torto...».

Dichiarazione bombastica?
«Sono pur sempre gli eredi di quelli le cui ville a Capalbio sono state pagate coi rubli e poi suvvia, lo sappiamo tutti che questo conflitto con un Trump alla Casa Bianca non ci sarebbe stato. È figlio della dottrina americana dell’esportazione della democrazia, che ancora non ha finito di fare danni».

Dovevamo lasciare invadere l’Ucraina?
«Dovevamo evitare che la situazione precipitasse, anziché disporre tutte le pedine sullo scacchiere in modo che il peggio fosse inevitabile. Ora siamo in guerra ed è considerato un traditore chi parla in termini di riflessione critica e non di propaganda. In tutto questo Russia e America si parlano, anzi, Cina e America...».

Ma la Russia è una dittatura...
«La Russia, piaccia o no, è la Russia di sempre. Ed è la prima potenza cristiana del continente. Parliamo tanto di Unione Europea e ci vantiamo di costruirla senza Cechov e perfino senza Shakesperare, cioè senza l’Inghilterra. Mi pare solo un doloroso svago di mancata geopolitica».

E l’aspetto della dittatura?
«Non che l’Ucraina sia una democrazia matura. I russi sono russi, come gli ucraini. Noi non riusciamo a farcene una ragione perché fisicamente ci somigliano, ma non sono come noi, non condividono i nostri valori democratici, il nostro progressismo».

La Meloni la pensa diversamente...
«Lei ha la responsabilità del governo d’Italia e nel Grande Gioco delle potenze l’Italia non è libera di sviluppare una posizione autonoma, e figurarsi sulla guerra, ma quando Meloni evoca il “Piano Mattei” lancia più che un segnale, una rivendicazione di sovranità».

In Occidente serpeggia una dittatura soft?
«Non dico questo, però non si può più fare opposizione. Rimpiango i cortei a Washington contro la guerra in Vietnam, o le proteste anti-americane di Comiso, con i poliziotti che manganellavano gli studenti. Tempi duri, anche violenti, ma nei quali tutti potevano fare politica».

Adesso non la può più far neppure Berlusconi?
«È evidente che il faro resta la lettera che Berlusconi scrisse nel 2014 al Corriere della Sera, quando esortò l’Occidente a non regalare Mosca alla Cina».

Siamo alla vigilia della Terza Guerra Mondiale?
«Questo è il riscaldamento, presto inizierà il primo tempo, in Europa e Medio Oriente. Il secondo sarà il conflitto tra Usa e Cina».

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