Vittorio Feltri racconta le cene ad Arcore: "Berlusconi e quelle signorine..."
Conosco Berlusconi da quaranta anni, sia lui che io eravamo ancora giovani. Silvio era già straricco e già abbastanza odiato dagli straccioni. Personalmente non ero più povero quindi abbastanza detestato soprattutto dai colleghi che guadagnavano molto meno di me. Ecco perché sono sempre andato d’accordo col Dottore. Quando mi assunse al Giornale, formalmente di suo fratello Paolo, mi trattò da principe. Allorché egli si accorse che vendevo più copie, il doppio, rispetto alla gestione di Indro Montanelli, mi riempì di denaro. Lo dico così chi mi invidia mi invidierà ancora di più con mia somma soddisfazione. Mi regalò il 6 per cento dell’azienda, che comprendeva la proprietà di un palazzo magnifico in via Negri. Quando lasciai la direzione del quotidiano, quattro anni dopo (al tempo mi stancavo presto di un posto di lavoro e me ne cercavo un altro più stimolante) andai a ritirare la mia liquidazione con la carriola.
Silvio mi offrì un ruolo importante in Forza Italia ma lo rifiutai in quanto preferivo continuare a fare il giornalista. Ma seguitai a essere suo amico. Mi invitava spesso alle romanzate cene eleganti a cui mi recavo non perché mi augurassi di fare delle scopate supplementari, dato che in questo settore me la sono sempre cavata egregiamente da solo. Andavo certe sere ad Arcore poiché stimavo il padrone di casa, sempre di una squisita gentilezza. In effetti nella sua splendida dimora mi trovavo a mio agio, malgrado fossi e sia un ruvido bergamasco. Silvio ed io suonavamo il pianoforte, lui meglio di me, il che mi seccava un po’ dato che da ragazzo facevo, per arrotondare, il pianista di piano bar ogni domenica sera.
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Alle famose cene partecipavano venti o venticinque persone. Il primo piatto consisteva in una pastasciutta patriottica tricolore: bianco al burro, rosso al pomodoro e verde al pesto. Poi veniva servita della carne che evitavo perché non amo mangiare animali, pesci compresi.
La parte più divertente era quella canora. Un tipo suonava su una tastiera e il Cavaliere cantava brani francesi interpretando i quali dimostrava di padroneggiare alla perfezione la lingua di Parigi. Verso mezzanotte la brigata si scioglieva e Berlusconi distribuiva ai suoi ospiti dei regalini, confermando di essere molto generoso. Indubbiamente tra gli invitati vi erano signore e signorine assai carine ma non ho mai visto Silvio dedicare loro smancerie sospette. Il che non era stupefacente perché un gentiluomo è normale che abbia solo un riguardo particolare per le donne, le quali a me piacciono ancora anche se non ne ricordo il motivo. Questione di età, quando si invecchia succede di dimenticare pure le passioni.
In ogni caso quelli che hanno descritto Villa San Martino come un bordello di lusso hanno visto lucciole per lanterne. Se i magistrati, e ne conosco tanti, avessero interrogato me prima di accusare a vanvera l’ex premier di essere un maniaco sessuale, non lo avrebbero perseguito sadicamente per oltre 10 anni. La verità è abbastanza nota ma come tutte le verità è poco o per nulla creduta.
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Silvio è stato massacrato dalla giustizia solo perché ha vinto in tutti i campi in cui si è cimentato: da quello edilizio a quello televisivo e perfino a quello calcistico. Il fatto poi che sia riuscito in alcuni mesi a sfondare in politica con un partito improvvisato, ha suscitato una tale rabbia negli avversari di sinistra e nei loro amici togati da indurli addirittura a processarlo, non una volta ma 136 uscendone sempre vincitore tranne in un circostanza. Mi riferisco all’evasione fiscale di una sua azienda di cui Silvio non era responsabile, essendosi dimesso, dopo essere diventato premier, da ogni carica sociale e direttiva. Una condanna ingiusta che gli costò addirittura la cacciata dal Parlamento, in base a una legge cretina stesa dalla ministra Severino. L’ultimo appuntamento con i giudici gli è valso una assoluzione, ma nessuno potrà risarcirlo perché i nostri tribunali, salvo eccezioni (per fortuna), sono mattatoi. Caro Dottore, non punti più su di me giacché non conto più niente se non come amico.