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Montanari sfregia l'Inno di Mameli: razzista, sessista e...

Tomaso Montanari  

Daniele Dell'Orco
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Agli intellettuali veri è da sempre concesso il peccato di presunzione. Alcune delle più grandi menti della storia sono state pure contagiate dal narcisismo, che le avrà rese magari poco piacevoli nelle relazioni interpersonali ma inestimabili nella produzione culturale. Gli intellettuali finti, invece, si riconoscono da subito perché dietro al narcisismo non hanno davvero nulla. Non solo lo spessore intellettivo, ma nemmeno la più basilare percezione del reale. Basti pensare a due profili come Francesco Merlo e Tomaso Montanari. Sui quotidiani che li ospitano, La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, sono riusciti a narrare il festival di Sanremo appena concluso in un modo opposto eppure parimenti fuori dalla grazia di Dio. Merlo ha definito l’Ariston come il tempio della “nuova Resistenza” contro il governo Meloni (una assurdità rabbiosamente punita dagli elettori tre giorni dopo il suo pezzo).

Montanari solo ieri, con tardivo e un po’ pavido tempismo, ha chiosato con un riferimento al legame tra le cariche dello Stato espresse dal nuovo governo (come Ignazio La Russa Presidente del Senato) e il sacrosanto sfoggio sul palco dell’Inno di Mameli una surreale controstoria del “Canto degli Italiani”. In cerca di notorietà per promuovere il suo spettacolo teatrale, il rettore dell’Università per stranieri di Siena, già reduce dall’ormai annuale vergognosa vena giustificazionista sui massacri delle foibe e dagli insulti a Franco Zeffirelli (definito “mediocre e razzista”) a cent’anni dalla nascita, Montanari sostiene che il nostro inno nazionale sia “triste”, “patriarcale” (perché menziona i fratelli e non le sorelle), “vittimista”, “xenofobo” (perché celebra la vittoria di Scipione l’Africano su Cartagine), “schiavista” (perché la chioma "tagliata" della Vittoria sarebbe allo stesso tempo riferimento sia allo sfruttamento che alla misoginia).

Immancabile, poi, il riferimento al fascismo, visto che a corredo del suo teorema giganteggia un manifesto della Repubblica Sociale con Mameli sovrastato dall’attacco del testo musicato da Michele Novaro. Di base, visto il suo perenne disprezzo per l’Italia e la sua storia, Montanari dimostra ancora una volta di non essere adatto a ricoprire un ruolo accademico che è un biglietto da visita del nostro Paese, ma anche a livello contenutistico la sua critica altro non è che un patetico revival di rimostranze vecchie di sessant’anni (spazzate via una volta per tutte non da un pericoloso militarista fascista ma dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che rilanciò l’inno inizio degli anni Duemila come uno dei simboli dell’identità nazionale) imbevute però nel suo caso di delirio ultraprogressista arcobaleno.

DALLA FRANCIA ALLA GERMANIA
Montanari ricorda solo en passant che l’Inno di Mameli fu simbolo del Risorgimento. Grave, visto che per un accademico la contestualizzazione storica è l’abc. E non menziona minimamente né lo spirito mazziniano del suo autore, né il fatto che sia i sabaudi che gli austriaci lo proibirono fino alla Grande Guerra, a riprova del suo sfondo anti-imperialista, né che la sua ispirazione fu giacobina. Da bocciatura alle medie, poi, almeno due falsi storici abnormi.
Primo: Montanari sostiene che sia addirittura nemico della Costituzione, ma forse non sa che oltre ad essere il canto che accompagnò i festeggiamenti per la promulgazione dello Statuto Albertino, venne intonato dai padri costituenti al termine dell’Assemblea che sancì l'approvazione della Carta, il 22 dicembre 1947. Secondo: l’Inno di Mameli non ha alcuna correlazione col fascismo. Anzi. Rientrò tra i canti che nel 1932 vennero proibiti dalla «direttiva Starace» che vietava i brani musicali che non inneggiassero al regime; andò per la maggiore tra le zone dell’Italia meridionale controllate da Alleati e partigiani (e i costituenti che parteciparono alla Resistenza lo sapevano bene); veniva riprodotto solo saltuariamente durante la Repubblica Sociale insieme a Giovinezza, e comunque la RSI non si dotò mai di un inno ufficiale.

Lo stesso Ministro della Guerra Cipriano Facchinetti, a cui si deve la proposta di adottarlo come inno nel ’46, era un repubblicano, fu oppositore del fascismo e rimase in esilio per quasi tutto il Ventennio. Che dire infine della follia “schiavista”? Montanari dimentica che “Fratelli d’Italia” era il preferito degli emigrati italiani, che in alcune zone del mondo non furono schiavisti, bensì schiavizzati. E chissà perché, poi, Montanari non ha mai detto una parola sul fatto che l’inno americano, che contiene il verso Nessun rifugio ha salvato il mercenario e lo schiavo, venne scritto da Francis Scott Key che gli schiavi li aveva davvero, o che la Marsigliese (che ispirò Mameli) canta la lotta contro “sangue impuro”, o che l’inno tedesco viene cantato solo nella terza strofa perché la prima venne scelta da Hitler, o che l’inno britannico è fusione di liturgia e imperialismo. Il punto è che un intellettuale vero non spaccerebbe mai teorie strampalate per simulare “originalità di pensiero”, perché in tal caso più che intellettuale sarebbe un umorista di corte. 

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