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La lezione di Seba, piccolo eroe della vita

Sebastian Manfredi

Storia del campioncino di calcio morto a 14 anni per un aneurisma

Francesco Specchia
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Non c’è niente di più straziante, di più doloroso, di più crudele – una lama che ti si conficca dentro fino a mozzarti il fiato- di una bara bianca. Una bara circondata di palloncini pronti ad issarsi verso il cielo per sublimare chissà quale rito. Ma la bara è sempre troppo piccola e troppo stretta; e ti ricorda quella in cui potrebbero starci i tuoi stessi figli.

La cassa da morto che blinda nello zinco i sogni di un ragazzino è sempre qualcosa di commovente e urticante al tempo stesso. E quella, piccola, stretta e bianca di Sebastian Manfredi, morto a 14 anni di una morte impossibile – per un aneurisma oltre le leggi del tempo- ieri se stava nella navata centrale della chiesa di Sant’Angela Merici in zona Maggiolina a Milano; in mezzo a un oceano di piccole teste reclinate al centro di una messa pop. Ad esserci, incastrati tra quegli inginocchiatoi, e a volgere lo sguardo tra il portone, l’abside e l’altare onde evitare di sostare troppo con lo sguardo appannato sul piccolo feretro, le sensazioni s’accavallavano. Il senso d’impotenza e di tragedia ma anche quello d’amore pulsavano all’unisono. Seba aveva un disabilità cognitiva compensata da un’allegria virale e una possanza di guerriero che esercitava in maglietta e scarpini sui campi di pallone. Sicché, nella chiesa s’affollavano i compagni di classe e i colleghi della Casteddu4Special, la squadra di calcio a 7 per gli atleti disabili, gemellata con squadre di serie A, B e Lega Pro; un team “adottato” dal Cagliari Calcio che su Facebook, del ragazzo defunto, «piange la prematura scomparsa. Te ne sei andato troppo presto, ciao Seba». Seba, di quella squadra era un talento; al punto che la sua «cintura da campione» verrà fissata al feretro, accanto alle foto di velieri, a una felpa e al pupazzo di neve che era il suo capolavoro artistico e richiamava Frozen, il cartone preferito.


Molti degli amici di Seba leggevano, dietro l’altare, sotto il controllo militare del parroco, il loro epicedio al compagno perduto. Alcuni, sbirciandoli in tralice, li vedevo che, sotto la panca, stringevano le mani ai propri genitori.
Altri, recitando una specie di mantra, osservavano muti la proiezione del video con le immagini di Seba in famiglia, in partita, al mare, in pandemia, con la miglior canzone di Irama in sottofondo: «Dove ogni anima ha un colore/ Ed ogni lacrima ha il tuo nome/ Se tornerai qui, se mai, lo sai che /Io ti aspetterò./ Ovunque sarai, ovunque sarò/ In ogni gesto io ti cercherò/ Se non ci sarai, io lo capirò/ E nel silenzio io ti ascolterò». "Ovunque sarai", un inno all’amore che vale più di mille rispettose prediche di ogni parroco presente. Altri ancora, tra i presenti, valutavano con interesse la lettere di cordoglio che l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini aveva fatto recapitare al sacerdote Luca Zanchi durante la messa: un gesto inamidato seppur apprezzabile da «pastore che si prende cura di tutto il gregge». Poi c’erano quelli convinti, sbagliando, di aver finito le lacrime. Io ero tra quelli.
E tutt’intorno, in quello spazio da nave in burrasca, sempre attraversato da canti, suoni e sorrisi stinti nel pianto, si muovevano decine di madri e padri afflitti. Afflitti, ma molto toccati da tanta, straniante grazia di comunità.


Erano tutti genitori convinti, come me, che la sopravvivenza ai propri figli sia la forma di tragedia più estrema, l’incidente contronatura che ti fa dubitare del senso della vita stessa. Non si può spiegare la morte di un figlio, è un dolore immenso, atroce, euripideo. Puoi solo lasciarti attraversare da quel dolore, e convogliarlo nella «creazione solo di cose belle», come diceva giustamente il prete a liturgia esaurita.
E, mentre pensavo ai miei, di figli, così intrecciati ferocemente alla vita come lo era quel loro quasi coetaneo, be’, lì, io ho posato lo sguardo sul padre di Seba. Stefano Manfredi è un amico, un ottimo avvocato col cuore a stantuffo e corazzato di acciaio Inox; l’ho osservato mentre s’infilava in un cantuccio a destra della cappella, al di fuori del frastuono della musica e dell’omelia, come fosse un ospite che non volesse disturbare troppo.
La madre e il fratello (che gioca a calcio pure lui, ma in porta) di Seba gli si stringevano accanto; e si dividevano equamente tutto il peso del dolore. Sono una squadra straordinaria, i Manfredi.
Non ho visto Otto, lo schnauzer nano di famiglia, ma spiritualmente era col suo padroncino preferito. Lo so che è durissima, ma ce la faranno.
Da qualche giorno, quando umore, pazienza e coraggio calano umanamente nella vita di tutti i giorni, mi capita di rileggere il messaggio che Stefano mi ha inviato lunedì: «Sebastian ci ha lasciato questa notte. Ha combattuto tutta la vita con forza e dignità». E, a quel punto, per contrasto, ogni cosa  diventa illuminata...

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