Bassetti denuncia la sinistra: "Cosa succede negli ospedali italiani"
È ora di voltare pagina. Il professor Matteo Bassetti è tra i medici più sicuri nella diagnosi: «Il Covid va guardato con occhi molto diversi rispetto a quanto fatto negli ultimi tre anni. Bisogna fare attenzione unicamente se aumentano le forme gravi e le ospedalizzazioni. Grazie alle vaccinazioni, gli italiani non rischiano una nuova sindrome cinese». Il direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’ospedale San Martino di Genova però sa voltare pagina rimanendo in prima pagina. L’abilità comunicativa ne ha fatto una presenza fissa nei palinsesti, e neppure gli difetta la schiettezza, quella che gli ha fatto riconoscere di «essere un narcisista, e non c’è nulla di male ad ammetterlo». Tuttavia, aggiunge, «anche nel mio ambiente, come in magistratura, in università o nei circoli intellettuali, domina una mentalità di sinistra e pauperista che ritiene che un medico, per il fatto che ha deciso come lavoro di curare il prossimo, debba essere un santo e lo si possa trattare come un martire. Ma noi siamo persone, non missionari, il camice bianco è uno strumento di lavoro, non un abito talare».
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Ma come professore, fa una rivolta sociale all’incontrario?
«Un giovane deve studiare dodici anni, foraggiato dalla famiglia, per diventare un medico specialista. Negli Stati Uniti, quando si pensa a una persona realizzata, subito viene in mente il medico. Qui in Italia, il medico è ritenuto un povero Cristo, la quint’essenza dello sfigato, una persona che deve lavorare solo per passione».
Amaro sfogo, però esagera...
«Lo faccia dire a me, che sono in corsia tutti i giorni. Siamo diventati dei prendi-schiaffi, ormai in ospedale sono frequenti le aggressioni ai medici e i pazienti ci fanno causa per qualsiasi cosa. Lo Stato ci tratta come degli impiegati delle Poste. È tutto sbagliato, anche a livello economico. Se lavorassi negli Usa, guadagnerei tre volte tanto. Ma non solo io, anche gli infermieri».
Che fa, batte cassa?
«Da trent’anni le università italiane sfornano i migliori medici d’Europa ma gli ospedali li pagano male, perciò quelli bravi se ne vanno all’estero osi fanno assumere dal settore privato, svuotando la sanità pubblica di eccellenze. Il nostro sistema continua a produrre dei Cristiano Ronaldo pretendendo di retribuirli come calciatori di serie B. Il problema della carenza d’organico che mette in ginocchio i nostri ospedali non dipende solo dal numero chiuso. Senza soldi non ci può essere sanità pubblica, funziona così dappertutto».
E lei come mai è rimasto in Italia a lavorare in ospedale?
«Mi fa una buona domanda. Ero all’Università di Yale, negli Stati Uniti. Mio padre, medico affermato, mi disse di tornare ma poi mi fece il brutto scherzo di morire dopo due anni. In compenso conobbi mia moglie, e sono rimasto qui».
Un medico però deve essere anche un po’ un missionario, o sbaglio?
«Vede, ci casca anche lei. Non apprezzo il dibattito di oggi sulla sanità, il concetto per cui la medicina debba aiutare i più deboli. La medicina deve aiutare chi sta male, ricco o povero che sia. Togliamo l’ideologia dagli ospedali: la malattia livella, quando si soffre si è tutti uguali».
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Ogni primario che si rispetti però ha un padrino politico...
«Un tempo, ma oggi non è più così. Il direttore sanitario e quello generale, di nomina politica, hanno tanto potere. Per i ruoli apicali in ospedale però ci sono i concorsi, che sono molto trasparenti. Il problema è più in basso, dove non c’è nessuna meritocrazia. Gli scatti di carriera, e quindi di responsabilità e di stipendio, avvengono tutti per anzianità e questo si ripercuote negativamente sulla qualità del servizio. Quando ero a Yale, il capo aveva 35 anni e i suoi collaboratori ne avevano cinquanta».
Sempre colpa della mentalità comunista?
«Inutile nascondersi dietro un dito. Il mondo della sanità, come tanti altri in Italia, è da sempre appannaggio della sinistra. Io, che sono un liberale, un ex berlusconiano, una persona orgogliosamente di centrodestra, sono sempre stato additato nell’ambiente come un figlio di papà. Se non sei di sinistra, nel mio mondo alcuni ti guardano con distacco e sufficienza».
Carriera però l’ha fatta...
«Non mi crede? Pensi ai miei colleghi giunti alla ribalta grazie al Covid come me. Crisanti, Lo Palco e Pregliasco si sono candidati con la sinistra. Galli si è sempre vantato di aver fatto il Sessantotto. La Viola nei suoi interventi televisivi non nasconde le proprie simpatie, parlando quasi più di politica che di medicina. E vogliamo parlare dei consulenti del ministro Speranza ai tempi del Covid?».
Mi pare che lei non si stia cercando amici tra i colleghi...
«La prima ondata ha colpito Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna e Liguria, ma non uno dei medici del Comitato Tecnico Scientifico proveniva da quelle regioni. Ha gestito l’epidemia chi non l’aveva mai vista. Noi che la combattevamo in prima linea non siamo mai stati interpellati».
Motivi geografici o politici?
«Questione ideologica. Il peccato di Speranza fu gestire un’emergenza medica privilegiando l’aspetto politico rispetto alle evidenze scientifiche, come quando nel maggio 2020 decise di non riaprire le scuole, mentre in tutta Europa gli studenti rientravano in classe. I danni sulla psiche dei ragazzi e nella loro preparazione li vediamo oggi. Così succede se ti affidi a professionisti orientati ideologicamente e ignori il pluralismo. Il ministro non ascoltava neppure i suoi sottosegretari, Sileri e Costa».
Il ministro Schillaci le piace?
«È preparato e non ha ancora sbagliato un colpo. Ha deciso di riaprire tutto, di levare ogni restrizione, e sta vincendo».
Non è che mi sta facendo tutto questo discorso perché anche lei cerca un posto in politica?
«Mi è stato offerto ripetutamente ma ho sempre declinato. Il centrodestra non ha bisogno di medici che facciano politica ma di professionisti che diano consigli giusti, senza pregiudizi ideologici, sulle decisioni da prendere».
Cosa ha in mente?
«Fino a prima delle elezioni, il centrodestra era quasi sempre fuggito dal ministero della Sanità, forse per paura, forse perché, proprio perché nel mio ambiente domina la sinistra, sapeva di non avere uomini in grado di dargli una mano. Ora la situazione è diversa e perciò è il momento di tentare un cambio di mentalità. Si potrebbe creare un laboratorio di pensiero, con persone che abbiano idee nuove sulla sanità».
Un organismo politico?
«Assolutamente no, un organismo scientifico. Mi permetto di dare un consiglio al governo: non commetta l’errore di reclutare quanti, e sono tanti, stanno provando a riciclarsi, passando da sinistra a destra. Non ripeta l’errore fatto a suo tempo da Berlusconi, non si lasci sfuggire l’occasione di guidare la sanità con una nuova classe dirigente».
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Di chi è colpa se la sanità oggi è a pezzi?
«Di chi l’ha gestita, quindi non del centrodestra, la cui responsabilità maggiore è di non averla curata troppo. L’origine di tutti i mali però, a mio avviso, è la riforma Bindi, ottime intenzioni, pessimi riscontri pratici. Ricorda, intramoenia, extramoenia? Imporre ai medici la scelta tra pubblico e privato ha svuotato gli ospedali di professionalità e abbassato la qualità del servizio pubblico».
Ma lei lavora nel pubblico e si schiera con la sanità privata?
«Io mi schiero con la sanità. Pubblico e privato non devono essere in concorrenza, vanno integrati, come in Francia. Non possiamo pensare di dare tutto a tutti gratis, e magari anche senza liste d’attesa. Non accade in nessun Paese del mondo, figurarsi in una nazione con il secondo debito pubblico planetario ma che non è la seconda più ricca. Il privato deve poter fornire le prestazioni che il pubblico non riesce a dare. La parola d’ordine è compartecipazione; d’altronde, per lo Stato pagare una prestazione al pubblico o al privato non cambia».
Ma cambia per i cittadini: se sono ricchi, hanno una corsia preferenziale...
«Non è vero che il privato toglie ai poveri la sanità. Al contrario, apre loro spazi, accorcia le liste d’attesa e finanzia tutto il sistema. Gli ospedali pubblici devono essere in grado di curare tutti nell’emergenza, di intervenire sull’acuto, ma prevenzione e ordinaria amministrazione possono essere in parte scaricate sul privato. Sarebbe un vantaggio per tutti, anche per il pubblico, che si alleggerirebbe, e per il paziente, che non subirebbe le magagne di un sistema zavorrato da regole burocratiche farraginose».
Anche nel pubblico ci sono due sanità, una di serie A e una di serie C, a seconda di dove si vive...
«Ci sono regioni virtuose, che rispettano i budget, e altre che usano i quattrini pubblici come fossero soldi del Monopoli, denari immaginari e senza valore, tanto poi se crei il buco, lo Stato ripiana».
Come se ne esce, con l’autonomia?
«Le Regioni di fatto sono già autonome nella gestione della sanità. Se ne esce cacciando chi fa i buchi, come farebbe qualsiasi azienda al mondo».
Tra tre settimane si vota in Lombardia e Lazio e la sanità è un argomento forte della campagna elettorale, specialmente a Milano. Lei cosa pensa del sistema lombardo?
«La pandemia scoppiò in Lombardia, non si sapeva nulla e ovviamente la maggior parte delle strutture non era abituata a operare nell’emergenza globale. Ci furono problemi iniziali, piuttosto inevitabili, ma io credo che l’attacco partito contro la Regione avesse motivazioni ideologiche: si voleva far passare il messaggio che la Lombardia era travolta perché agiva in disaccordo con il governo, invece era travolta perché il virus scoppiò lì».
Ma lì non rispose la medicina del territorio, perché il sistema è fortemente privatizzato. Questa fu l’accusa, quanto fondata?
«Il sistema territoriale funziona poco ovunque e non andrà diversamente finché ogni medico generico per sopravvivere dovrà avere almeno 1.500 pazienti-clienti. Ovvio che se arriva la pandemia, non puoi andare a casa di tutti. È scoppiata in Lombardia e il sistema ha mostrato lì le proprie fragilità, ma non a causa degli ospedali privati. La Lombardia è stata la Regione più efficiente in fase di vaccinazione e sono stati i medici lombardi, tra gli altri Zangrillo, Clementi, Pesenti e Remuzzi, a insegnare al mondo come si cura il Covid».