Franco Frattini, il coraggio insospettabile di un mostro di bravura
Oso trasmettere un ricordo molto personale di Franco Frattini (1957-2022), morto di cancro la vigilia di Natale, senza far trapelare la notizia della propria malattia neppure a se stesso, ritenendola inessenziale per i destini del mondo, ma soprattutto perché aveva pudore del proprio coraggio, e gli faceva orrore anche solo l'idea di esibirlo e sentirsi ammirato per questo.
Ora posso dirlo: era uomo di un'audacia che per intensità e, contemporaneamente, per capacità di dissimulazione, è stata a mia esperienza senza paragoni nel bestiario politico. Gli veniva così naturale, questo coraggio, una cosa stessa con la sua anima, che gli pareva banale e molto provinciale lasciar trasparire un qualsiasi segno di sofferenza: nessun bisogno di asciugarsi la fronte, preferiva sudare di dentro.
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INSOSPETTABILE
Ecco, il volto di Frattini che mi si è impresso e voglio proporre è proprio quello insospettabile e invisibile, ardente subito sotto la pelle ben rasata e quasi azzurra. Egli ha accettato in modo semplice ed estremo il suo compito-missione-dovere, testimoniato fino a sottoporre a stress test da condannato a morte il suo corpo fisico e morale, ma in modo tale che nessuno capisse che razza di peso stesse portando. Mi rendo conto di come questo mio ritratto interiore di Franco Frattini contrasti con l'immagine nobile ma un po' troppo da decurione azzimato e compito che negli anni è stata pitturata di lui. Certo risulta su misura per le cariche da lui rivestite senza alcun apparente spiegazzamento di camicia.
L'ultima, quella estrema, è stata di presidente del Consiglio di Stato, cioè primo magistrato amministrativo d'Italia, a soli 64 anni. Nessuno ha eccepito sul merito, né osato parlare di scivolo politico, essendo arcinota la competenza giuridica leggendaria dell'uomo, e la facilità linguistica quasi soprannaturale nell'esprimerla. Diciamolo: un mostro di bravura. Maturità classica al Giulio Cesare di Roma, laurea in giurisprudenza a 21 anni, vince il concorso ordinario per l'ingresso in magistratura, poi quello da avvocato dello Stato, quindi per il Consiglio di Stato. Tutto al primo colpo et cum laude. La sua prima idea politica lo colloca all'estrema sinistra. Scrive per Il Manifesto, tale e quale Giulio Tremonti: entrambi, diversissimi per temperamento, ben presto traslocati idealmente in area socialista, e poi in Forza Italia.
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Nel 1994 Berlusconi trionfa con il centrodestra. Il segretario generale di Palazzo Chigi è Andrea Manzella, sommo burocrate, il quale però avendo "in gran dispitto" il Cavaliere lascia per tempo il posto: ed è Frattini, 37enne, ad insegnare i primi passi a Silvio e a Gianni Letta nei ghirigori elefantiaci della macchina governativa e statale. Franco è presto nominato segretario generale. Con il governo Dini diventa ministro della Funzione pubblica, dove- ricorda il successore Renato Brunetta - tolse la patina di grigiore ministeriale sovietico acquistando lampadari di Murano: luce sull'amministrazione dello Stato. Quindi per cinque anni alla presidenza del Copaco (l'antecedente del Copasir). Poi, vado di corsa, due volte ministro degli Esteri dei governi Berlusconi. È lui che comprende e rende operativo il progetto di Pratica di Mare, vertice delle intuizioni berlusconiane: nessuno come Frattini per l'Occidente e la Nato, ed insieme il più capace di riscuotere la fiducia del Cremlino. Il trattato di amicizia con la Libia lo vede protagonista. Sdrucciola poi in due occasioni.
Sta con la Nato- nello specifico con Napolitano, Sarkozy e Hillary Clinton - e appoggia la guerra contro Gheddafi. Appoggia Mario Monti nel 2013, confidando di poter essere scelto come segretario generale della Nato. Niente da fare. Amen. «Dov' ero rimasto?», si chiede. Torna al suo lavoro di grande, grandissimo magistrato amministrativo e sportivo. Interviene come può, riaffacciandosi al davanzale del mondo, usando tutto il suo prestigio e la sua saggezza per impedire la rottura traumatica tra Occidente e Russia. Questo lo fa essere candidato d'altissimo profilo per il Quirinale, non è stagione per lui, e senza enfasi accetta da Mario Draghi la promozione ai vertici del Consiglio di Stato. Indi. La malattia, il lavoro anche dal letto d'ospedale, il coraggio, il silenzio, la morte.
LA MISSIONE
Ed ecco il ricordo personale. 2004, 4 aprile, assassinio di Fabrizio Quattrocchi, ucciso in Iraq dai terroristi islamici. A Porta a Porta fui io a dare notizia di chi, tra i sequestrati, era stato abbattuto. Non poteva essere il ministro degli Esteri Frattini, presente in studio, a prestare la sua voce al tremendo messaggio di sangue. Chiese fossi io. Gli avevano assicurato che la famiglia a Genova era stata informata, così mi fece sapere. Non era vero. Anch' io allora chiesi le sue dimissioni, mi aveva trasformato in becchino mediatico. Lo avevano ingannato: in nessun modo volle difendersi. Si fidò di me fino in fondo, e si espose dicendo, come io gli avevo riferito, che Quattrocchi «era morto da eroe».
Insulti rossi per lui. Mi volle poi suo consigliere per la libertà religiosa e contro la persecuzione dei cristiani. Lo seguii in zone terrificanti. In Iraq non si astenne - pur invitato a ritirarsi- dal percorrere un sentiero considerato fuori controllo, accompagnandomi in una chiesa cristiana a Baghdad. Aveva appena tuonato contro il premier sciita per la negata libertà religiosa, lo stesso aveva fatto con gli americani che avevano trasformato le parrocchie in depositi come in Unione Sovietica. In aereo per Roma, sul Falcon, io ero piuttosto provato, lui vagheggiava discese sciistiche in Groenlandia. Era maestro di sci, d'accordo, ma non era un damerino come facevano credere gli idioti. Sfidava gli yeti del mondo. Aveva tesori che non fanno curriculum. Sono parte del mistero della persona, e non si possono raccontare se non dopo la morte di chili ha spesi con te.