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Luciano Bianciardi, l'uomo che fece dell'odio un capolavoro

Luciano Bianciardi

Abrasivo, insoddisfatto, imprevedibile: pubblicazioni e convegni celebrano lo scrittore toscano nel centenario della nascita

Francesco Specchia
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Luciano Bianciardi odiava tutti in un afflato di rara democrazia.
E rendeva le sue disillusioni a orologeria, di volta in volta: materia letteraria, critica sociale, nichilismo caricato con lo stesso tritolo con cui - nel suo capolavoro, La vita agra del 1962 - avrebbe fatto saltare la Torre Galfa per vendicare dei disgraziati soffocati in miniera.
Oggi quell'odio - un tempo abbondantemente ricambiato - s' è trasformato in nostalgia per uno dei più grandi scrittori irregolari del secolo passato. A 100 anni dalla nascita di Bianciardi e a 60 dalla Vita agra, l'Italia ne riscopre il corpus letterario e la lezione con una serie di manifestazioni e convegni (gli ultimi a Roma e a Grosseto). In più è appena uscita, con una prefazione di Michele Serra, la raccolta Tutto sommato - Scritti giornalistici 1952-1971 (ExCogita, tre volumi per complessivi pp. 2972, 150 euro), titolo riferito a un omonimo racconto, censurato nel '65 che costò al «precario esistenziale» (definizione by Gian Paolo Serino) un processo per oscenità. Racconto riproposto integrale, assieme agli atti processuali di quella vicenda in un altro recente volume: Imputati tutti. La solita zuppa: Luciano Bianciardi a processo (ExCogita, pp. 160, 15,00 euro) a cura della figlia Luciana con prefazione di Giancarlo De Cataldo.
Come la sua carriera, l'esistenza stessa di Bianciardi era quella di un anarcoide geniale alla distratta ricerca del suo punto d'appoggio.

PORTA PRINCIPALE Lasciata la famiglia borghese nel '54 per raggiungere Milano («Bastano pochi mesi perché chiunque si trasferisca qui si svuoti dentro...»), Luciano entrò nell'editoria dalla porta principale: traduttore dall'inglese alla Feltrinelli. Nel giro di poco ritenne quel mestiere un gorgo burocratico e si licenziò.
Indro Montanelli, primo prefatore della Vita agra, gli offrì un contratto di collaborazione a 300mila lire al mese (oggi, 5mila euro); ma Bianciardi, non sentendosi «libero», rifiutò, preferendo vergare pezzi maestosi per Le Ore, Playmen, ABC e soprattutto il Guerin Sportivo diretto da Gianni Brera. Sul Guerino, specialmente, teneva una rubrica della posta abrasiva, attraverso la quale spesso toglieva la pelle ai personaggi famosi dell'epoca, da Vittorio Adorni a Gino Paoli, da Giuseppe Berto a Lando Buzzanca.
Era capace di frasi che spazzavano le regole stesse del calcio inteso come liturgia popolare: «Il fuorigioco mi sta antipatico, come tutte le regole che limitano la libertà di movimento e di parcheggio». Le regole, per lui, erano il pleonasmo d'una vita già disarticolata di suo. E intanto, guarda caso, continuava a tradurre l'epopea dei grandi ribelli: Saul Bellow, Aldous Huxley, Henry Miller, John Steinbeck. La figlia Luciana, intervistata da Repubblica lo ricorda come un eclettico assoluto: «Qualsiasi cosa scrivesse, dal pezzo per Il Contemporaneo alla lista della spesa, non rinunciava a qualità, cura, rigore. Come se nella scrittura riuscisse a trovare la misura e l'equilibrio che non trovava nella vita». Era un anarchico individualista «per disposizione d'animo».
Ed era un chiaroveggente di movimenti sociali e avanguardie storiche. Aveva anticipato, con la sua Trilogia della rabbia, il Pier Paolo Pasolini corsaro degli articoli pubblicati sul Corriere agli inizi degli anni 70 (leggendaria la sua foto con la benda sull'occhio destro). Scrive, per esempio, ne L'integrazione: «Questi sono i ceti medi italiani... Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, tu la macchina, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone. E credono che sia questa la vita moderna, la felicità».
Un attacco feroce al boom economico. Inoltre Bianciardi pubblicò anche sull'Avanti - e il pezzo verrà poi riproposto nella sua raccolta Il convitato di vetro. Scritti di critica televisiva - un'invettiva contro il modello dell'omologazione offerto dalla tv, rappresentato da Mike Bongiorno: «Sarebbe ingiusto farsi beffe di un uomo così onestamente mediocre. Bisogna dire che Mike Bongiorno meritava il successo che ha avuto proprio in virtù del suo schietto, lampante grigiore».
Era il 1959. Il critico tv Nanni Delbecchi nel saggio del 2009 La coscienza di Mike (Mursia, nella collana sulla comunicazione di cui io fui indegno direttore)  fu il primo a notare come, appena due anni dopo, la Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco, fosse così evocativa delle teorie sociologiche bianciardiane. Sempre Luciana che lottò per tramandare ai posteri l'eredità letteraria e umana del padre ne esalta il suo pensiero fuori sincrono.

LA LUNA... «Era il suo modo di stare al mondo, imprevedibile e paradossale. Scriveva di televisione nella sua rubrica Telebianciardi, ma non voleva che la guardassimo. Ci diceva che era contrario al divorzio perché prima ancora avremmo dovuto lottare per abolire il matrimonio. E nel giorno dell'allunaggio ci invitò a pensare alla luna di Leopardi, perché quella conquistata da Neil Armstrong non sarebbe servita a niente. Alla sua maniera, era sempre avanti rispetto agli altri». Talmente avanti che in pochi s' accorsero delle tracce del suo genio. Finora, almeno.

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