Joël Dicker, le mirabolanti imprese di un macinatore di best sellers
"Il caso Alaska Sanders" ha conquistato tutte le hit. Ma sulla scrittura e sulla capacità di marketing del suo (fenomenale) autore la critica si divide...
Joël Dicker non è uno scrittore qualunque, è il miracolo laico dell’editoria mondiale. Con quell’allure da marziano caduto sulla Terra come in una canzone di David Bowie, con quell’aria da bell’attore alla Roger Pattison inciampato per caso in una ragnatela di delitti e parole limpide come nembi, questo 37enne ginevrino è ancora sulla vetta delle classifiche italiane. Mi chiedo il perché.
La sua nuova opera Il caso Alaska Sanders (La nave di Teseo, pp 644, euro 20. 90)
s'è issata prepotente sulla cima delle calienti letture estive, ispirandosi – non so quanto consciamente- al classico delle donne scomparse in acqua, Il Mistero di Marie Roget- di E.A. Poe; e finisce nel trattare il cold case di una ragazza trovata in un lago del New Hampshire, passando per lettere anonime e false piste, tra atmosfere in stile Virgin river serie Netflix emblema di tutte le cittadelle anonime dell’inquietante provincia americana. Nel mezzo della narrazione si rispolvera il connubio tra lo scrittore Marcus Goldman, che ha appena ottenuto un enorme successo con La verità sul caso Harry Quebert e il sergente Perry Gahalowood. La povera Alaska Sanders è quindi un sequel di Harry Quebert, uno dei romanzi più fortunati della letteratura, roba da un milione di copie di vendita.
Ora, probabilmente non si avvertiva un successo così tonante dai tempi di Stoner di John Williams scoperto da Fazi Editore; solo che lì emergeva una qualità di scrittura letteraria sbalorditiva nel raccontare la vita piatta di un uomo inutile, nel rendere una storia di resistenza umana uno dei più grandi romanzi Usa del secolo. Qui, invece, è molto diverso. Il libro, poi, pur ben scritto, non si addentra nelle profondità dei suoi caratteri; lascia che il personaggio cardine di Marcus, alter ego di Dicker stesso, si acquatti sull’argine del fiume narrativo e lasci che la trama scorra, senza scossoni, sull’indagine del poliziotto. In realtà, al di là di ogni tentativo di recensione, il caso Alaska è il caso Dicker. È la fenomenologia di un autore ginevrino sconosciuto perfino in Svizzera che vince all’improvviso il Gran Premio dell’Accademia francese e il Goncourt scrivendo -in francese- di atmosfere americane thriller che nulla hanno del thriller.
Al collega Giuseppe Fantasia che glielo fa notare Dicker, con sorriso abbozzato spiega: «Io ritengo che l'omicidio non sia interessante come atto in sé, ma per tutte le conseguenze. Ha un impatto forte sulle persone e ciò che interessa è capire quell'impatto ed entrare in quel gioco tra vittime e carnefici. La cosa interessante non è l’azione in sé, che uno uccida qualcun altro o sparisca, ma il perché succeda e l'influenza che quei fatti possano avere sulla vita delle persone». Oramai di Dicker si sa tutto. Che è un ragazzo di poche parole rilucente di un rapporto privilegiato col suo vecchio editore il quale lo fece debuttare senza infamia né lode con Gli ultimi giorni dei nostri padri nel 2009. Che preferisce gli Stati Uniti perché scrivere della sua Ginevra è molto meno divertente. Che ogni tanto fa anche lui il piccolo editore (ma di qualità). Che non ha preso parte alla sceneggiatura della fiction tratta dal suo primo film perché il regista era Jean Jaqcques Annaud e se non gli rotto le scatole Umberto Eco, figurarsi lui. Che ha “gli occhi magnetici” come sottolineano le sue intervistatrici ma che si vergognerebbe a fare l’attore. Bene.
Il personaggio è dipinto a tinte morbide e, al contempo, fiammeggianti. Non c’è nessuno che ne parli male. Ma Dicker, qualitativamente, vale davvero la sua fama e le sue tirature? Molti colleghi avvezzi alla critica letteraria come Maurizio Zottarelli ritengono che Joel sia una sòla. I suoi libri sarebbero inutilmente gonfiati da situazioni reiterate attraverso i verbali di polizia; gli indizi elencati nelle sue pagine per risolvere i casi non servono a nulla (violando ogni regola del rapporto giallista-lettore, anche se non è un giallista); nel testo abbonderebbero banalità alla Liala del tipo: «sai qual è l'unico modo per misurare quanto ami una persona? No. Perderla»; si incasinerebbe nelle linee temporali tra il 1975 e il 2008. Zottarelli parla di un autore di «un’astuzia diabolica».
E, rileggendo le critiche del New Yorker all’uscita di Harry Quebert nel 2013 , la tesi non è peregrina. Il New Yorker lo ritenne «indirizzato a persone con facoltà critiche temporaneamente disabilitate che cercano di dimenticare chi o dove sono». Il Washington Post lo definì «una seria viltà» parlando della sua caratteristica di «giallo intellettuale» espressione di cui si ignora il senso.
In Italia solo pochi blog come Il piacere della letturabparlano di «800 pagine di bluff dove ogni dettaglio è così esasperato che spesso sfocia nella parodia» e «quello che conta non è sempre lo stile ma la morbosità della storia». Leopoldo Gargano parla di «tirannia delle minchiate». Di contro, c’è l’immenso successo magari pompato dal marketing. E una scrittura fluida e chiara che mantiene l’attenzione del lettore invitandolo ad andare avanti, promettendogli incredibili colpi di scena prima della fine. Lampi che poi non arrivano. Ma che lasciano comunque soddisfatta la voglia di intrattenimento, non di letteratura. Certo, lo dicevano anche di Stephen King o Wilbur Smith. Della sua vocazione di scrittore Dicker stesso afferma: «Non c’è niente che ti prepari in maniera da poterti fare dire “Ecco: sono un autore”. All’inizio della mia carriera mi interrogavo profondamente e nonostante i miei libri siano stati dei grandi successi la mia è una riflessione che continua». E se continua per lui, figurarasi per noi...