Eugenio Scalfari, Vittorio Feltri confessa: "Ciò che oggi sono costretto ad ammettere"
Con orgoglio posso affermare di non avere avuto maestri. Sono sempre stato un autodidatta in tutto, pure nel giornalismo. Tuttavia, proprio il non avere usufruito di una guida mi ha indotto a trarre ispirazione dai migliori e persino a copiarli, attività che non considero sminuente bensì arguta. Eugenio Scalfari ha rappresentato per me, se non un modello da emulare, almeno un esempio da seguire, avendo egli mirabilmente coniugato la capacità giornalistica al genio imprenditoriale, cosa che non riuscì, tanto per citare un altro grande, a Indro Montanelli, il quale fu tanto ineguagliabile nella scrittura quanto poco brillante negli affari. Proprio Indro un dì, quando ancora dirigeva il Giornale, mi rivelò di essere convinto che il più grande direttore fosse proprio Scalfari.
Avendo novantotto anni suonati, Eugenio Scalfari non poteva certo sperare di tirare avanti ancora a lungo, dato che gli uomini più che vecchi non possono diventare, purtroppo. Ad un certo punto essi muoiono e ciò rattrista anche noi che rimaniamo, noi che nutriamo, nostro malgrado, la medesima aspettativa, quella di finire in una tetra tomba. Quando accade che qualcuno che abbiamo conosciuto sparisce, puntualmente emergono dagli anfratti della memoria ricordi sopiti o sepolti. Ed è quello che mi sta accadendo in queste ore, da quando ho appreso che Eugenio Scalfari, l'ultimo gigante del giornalismo, non c'è più.
Nato a Civitavecchia negli anni Venti del secolo scorso da genitori calabresi, Eugenio, a causa del lavoro del padre il quale ricevette l'incarico di direttore artistico del Casinò, frequentò il liceo classico di Sanremo ed ebbe come compagno di banco nientepopodimeno che Italo Calvino. Chissà perché spesso i grandi si incrociano su questa Terra! In tal caso trascorsero qualche anno gomito a gomito.
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DALLA BANCA AL MONDO - Era impiegato presso la Banca Nazionale del Lavoro quando, nel 1950, cominciò a scrivere per Il Mondo e poi l'Europeo. Ma non furono queste le prime esperienze nel settore. Scalfari prese a maneggiare la penna allorché era uno studente della facoltà di giurisprudenza e vergava su Roma Fascista (organo del Gruppo Universitario Fascista), di cui fu poi nominato caporedattore nel 1942.
Dal Guf Eugenio fu espulso addirittura con violenza, accusato di essere una sorta di infiltrato, un pesce fuor d'acqua, in sostanza, una rogna, un rompicogli*** da vero giornalista quale fu, di cui liberarsi. Non era la fine. Ma non era neppure il principio di una carriera che fu sfolgorante, disseminata di successi, vittorie, raggiungimento di traguardi che in molti, se non tutti, ritenevano impossibili. Scalfari è stato un vincente poiché è stato uno che ci ha creduto. E in cosa ha creduto? Non in Dio, poiché si proclamava ateo, bensì in se stesso. E ha fatto bene. Scalfari è stato colui che negli anni Sessanta ha portato L'Espresso, il più prestigioso settimanale dell'epoca, a livelli mostruosi di vendite. E questo trionfo lo ha persuaso che in Italia si potesse fondare un quotidiano di sinistra non marxista, ma moderata, oggi diremmo "progressista".
Quindi creò la Repubblica.
Era il lontano gennaio del 1976 quando comparve il primo numero in edicola, lasciando chiunque un po' perplesso in quanto il formato era quello del tabloid, mancavano lo sport e le cronache, sembrava un giornale un po' incompleto, marginale. Eppure Scalfari lentamente ma inesorabilmente lo trasformò in un fenomeno di moda. Diventò figo leggere la Repubblica, alla quale Eugenio diede presto una connotazione speciale, unica.
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PRIMO QUOTIDIANO - C'erano dei grandi racconti di politica e non solo che appassionavano, paginate intere che il lettore beveva con piacere. Furono parecchi gli apprezzati giornalisti che in quel periodo migrarono verso questo foglio e, allorché esplose la questione della P2 al Corriere della Sera, anche Alberto Ronchey ed Enzo Biagi, attratti da Scalfari, trovarono casa presso il giornale di Eugenio, il quale, fervente sostenitore dei valori essenziali e ormai quasi dimenticati del nostro mestiere, come il pluralismo delle voci, accoglieva sulle pagine punti di vista differenti e addirittura nettamente contrapposti.
Penso, ad esempio, alla rubrica proprio di Ronchey dal titolo «Diverso parere». Fu in quella fase che accadde una cosa incredibile: la Repubblica superò il Corriere, diventando primo quotidiano nazionale per numero di vendite. Tutto questo fu possibile grazie alla capacità professionale di Eugenio, che era altresì eccellente giornalista. Certo, i suoi articoli talvolta potevano risultare un po' troppo lunghi e tediosi, eppure affrontavano dei temi di così stretta attualità e chi li scriveva godeva ormai di tale generale stima persino tra coloro che non ne condividevano le opinioni che accendevano e tenevano vivo il dibattito pubblico.
SULLE SUE TRACCE - Insomma, il fondatore di Repubblica è stato un uomo straordinario. Assunta la direzione prima dell'Indipendente e poi del Giornale, pur da una prospettiva politica opposta, cercai di imitare Scalfari per avvicinare e ingolosire il lettore, dal momento che la sua formula era stata efficace. I risultati non si fecero attendere. Da Eugenio mutuai la polemica continua, una polemica che non si limitasse a distruggere ma che costruisse, o almeno tentasse di farlo, quantunque egli fosse più elegante di tutti quanti noi. Ottenuti strepitosi successi con boom di copie vendute, pure Scalfari prese a seguire me.
Negli anni Novanta Lucia Annunziata in tv gli chiese una opinione su di me e Scalfari affermò lapidario: «Feltri è un mio figlio degenere». Queste parole mi fecero sorridere poiché compresi che probabilmente Scalfari si fosse reso conto che lo avevo preso in qualche maniera a modello. Alcuni anni fa ebbi l'onore di essere sfidato a duello da Eugenio per mezzo di un articolo, avendo da qualche giorno avviato una sorta di botta e risposta egli dalle pagine di Repubblica e io da quelle di Libero. Non mi sovviene adesso quale fosse la tematica in oggetto, ma mi divertì questo spirito cavalleresco di Scalfari al quale risposi di scegliere bene l'arma in quanto con il fioretto e la spada me la cavo essendo stato uno schermitore.
L'ultima volta lo vidi presso il ristorante il Baretto di Milano. Mi accorsi della sua discreta presenza soltanto alla fine della cena. Se ne stava nel tavolo accanto, in compagnia di una signora. Prima di andare via mi avvicinai per porgergli un saluto ed egli, guardandomi dritto negli occhi, tuonò: «Vittorio, attento ché ti seguo». «Eugenio, io seguo te da tutta quanta la vita!», replicai.
Caro Eugenio, spero però di seguirti il più tardi possibile nell'aldilà. Sei stato il papa dei giornalisti e non per il tuo scambio epistolare con il pontefice, di cui tutti noi colleghi fummo, in fondo in fondo, invidiosi, bensì per la tua indiscutibile bravura. Mi hai insegnato che il vero giornalista non si pone mai né un gradino sopra né un gradino sotto rispetto al suo interlocutore, chiunque questi sia, perché occorre parlarsi alla pari. Ora un ingiustificato senso di superiorità divora i giornalisti e avvelena le penne. Ma forse fa addirittura peggio quel senso di inferiorità che pure li anima inducendoli a leccare oggi questo e domani quello. Intanto il giornalismo muore. Anche lui.