Eugenio Scalfari, l'eroe della sinistra sempre al servizio della ghigliottina rossa
A Eugenio Scalfari, oltre al giornalismo, è riuscita bene anche la morte. Per il resto ha fatto danni, ha aperto, lui sì, l'Italia come una scatola di tonno, tagliandone la tenera polpa con il grissino della pubblicità di Rio Mare, distribuendola agli amici e nutrendone il proprio ego. Per lui "Io" (titolo di un suo libro) era Dio. Ma fossimo stati al suo posto, avremmo avuto anche noi la tentazione di crederlo: (quasi) ogni ginocchio dinanzi a quest' uomo si è piegato. Ho avuto l'onore di frequentare Scalfari tanti anni fa. Emanava una forza calamitante. Una luce. Mi illuminò. Poi si spostò, ed entrai nel suo tremendo e vendicativo cono d'ombra. Non mi monto la testa, non sono gran che tra i suoi scalpi: sono stato uno tra i tanti. Ma che bella morte ha avuto Eugenio Scalfari! A 98 anni se l'è portato via dolcemente. Testimoniano le figlie che «La Signora» (così scrive repubblica.it) ha soffiato con delicatezza su quel lucignolo fumigante. Scalfari del resto non aveva paura della morte. Più probabile che fosse lei ad aver paura di lui che negli ultimi anni, avvicinandosi all'estrema soglia, aveva cominciato a esercitare non più per cambiare il mondo ma il cielo, ricostruendo a sua immagine persino l'aldilà e Dio stesso. Nel quale diceva di non credere, ma che deve avergli obbedito.
Scalfari è deceduto infatti nel giorno che più gli somigliava, e che aveva eretto a fondamento di tutta la sua vita: il 14 luglio. Sarà mica un caso. È la festa della Rivoluzione Francese, anniversario della presa della Bastiglia. Quella data e quegli eventi segnarono la vittoria dei suoi alter ego intellettuali, Voltaire senz' altro, ma soprattutto Diderot. Ci sarebbe anche la ghigliottina, come lascito del 14 luglio. E diciamo che Scalfari si è preso la briga di usarla da provetto boia, contribuendo a scrivere la condanna a morte morale del Commissario Calabresi, definendolo «Commissario torturatore»: ciò che solo il 20 maggio 2017 - in risposta a un articolo di Vittorio Feltri - ha riconosciuto essere stato un "errore", riuscendo nello stesso tempo a definire Libero «ciarpame»; in seguito l'Espresso - di cui era editore - assassinò la reputazione del presidente Giovanni Leone, che si dimise e cadde in profonda depressione; il linciaggio di Craxi, che da anni aveva legato al personale palo della tortura di Repubblica.
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UOMO PER TUTTE LE STAGIONI
«Libertino è una parola che ha molti significati. Ce n'è uno filosofico, uno politico, uno sessuale. Spesso non si incontrano i significati nella stessa persona. Io sono stato un libertino... complessivo», disse di sé. Qui accontentiamoci del suo libertinaggio politico. Parte fascista. Per anni non ne ha fatto cenno. Infine trasformò questa sua appartenenza in un segno prepotente di "freschezza" giovanile. Toccò ad Antonio Socci, sull'Indipendente, infilare una serie di articoli nel 1992 in cui raccontò gli articoli che scriveva per Roma Fascista. Ritrovò nell'archivio di Stato la corrispondenza tra lui e Roberto Farinacci, e perché alla fine lo contrastò: «Quel ragazzo è un estremista». Insomma, ebbe rogne perché troppo fascista.
Si stufò, se ne andò e la sfangò. Detto ciò, la sua anima, in conformità coi tempi, si spostò a sinistra, alla scuola dei banchieri azionisti e liberali. Partecipò infine alla fondazione del Partito radicale (1955).
Fondato l'Espresso, con i soldi di Olivetti, ebbe la ventura di vedersene regalate le quote, diventando ricco, poi ricchissimo. Su quelle pagine prese di mira con Lino Jannuzzi il generale De Lorenzo, accusandolo di aver tentato un golpe nel 1964. I due furono condannati per diffamazione a 17 mesi di carcere. Il dossier Mitrokhin ha rivelato quanto fasulle fossero le fonti, passate dalle mani dei sovietici. Ma non si dà la galera per un articolo. Però non è neppure bello trovare un rifugio da privilegiati nell'immunità parlamentare. Lui dice che furono Riccardo Lombardi e Pietro Nenni a procurargli il posto da deputato a Milano, altre fonti sostengono che a offrirgli il seggio fu Giacomo Mancini. Per quattro anni sedette a Montecitorio, da deputato socialista. Quel periodo non è stato glorioso per quanto accaduto in aula, ma per la sua lite con un vigile urbano. La cronaca dei fatti è sul Corriere della Sera, a pagina 9, il 1 aprile. Titolo: «Ritirata la patente all'onorevole Scalfari. Il deputato del Psi preannuncia una denuncia contro il vigile urbano».
Il 9 giugno Il Corriere annuncia la decisione del Pretore di procedere al contrario per oltraggio a pubblico ufficiale. Che era successo? Scalfari aveva preteso di parcheggiare la Volkswagen nel posteggio riservato ai carabinieri, in Galleria delle Carrozze, il punto più comodo per accedere alla Stazione Centrale. Il vigile lo multa, gli ritira la patente perché scaduta anni prima. Secondo i testimoni il deputato sbraita: «Lei non ritira un bel niente, anzi sarebbe meglio facesse una cura ricostituente anziché fare contravvenzioni, perché lei non sa chi sono io! Sono l'onorevole Scalfari!» Perdindirindina!. Da tutta questa militanza socialista ha ricavato un vitalizio da 2300 euro mensili. Ma anche un odio personale contro Craxi, essendosi convinto fosse stato il giovane ed emergente Bettino a manovrare giornali e vigili contro di lui. Questo spiega la campagna pro Berlinguer e pro De Mita, finché morto il primo, scaricò il secondo per Occhetto. Poi lavorò alla defenestrazione di Cossiga dal Quirinale, quindi a quella di Berlusconi da Palazzo Chigi onde spedirlo in carcere. Su questa faccenda ha insistito per vent' anni. Salvo rimpiangerlo un paio di anni fa, dicendo che lo aveva "sottovalutato". Non credo riposerà in pace. Paradiso o no, Craxi gli rifilerà comunque uno sganassone.