Federico Rampini contro Joe Biden: "La frase con cui ha dato il via alla guerra
E se la quinta colonna di Putin in Occidente non fosse rappresentata dal lamentoso professor Orsini, dal guerrigliero delle parole Di Battista e dai vari opinionisti e intellettuali, lo spocchioso Massimo Cacciari, il capelluto Sandro Teti, il gramsciano Angelo d'Orsi e l'eterno anti-atlantista Giorgio Cremaschi che girano i salotti televisivi facendo le bucce al governo sulla crisi ucraina? Sei migliori alleati dell'invasore russo fossero negli Usa, tra i talebani del progressismo culturale, e in Italia, dove ancora fioriscono, tanto nel mondo cattolico quanto in quello tardo -comunista, gli eredi dell'antiamericanismo? La risposta potrebbe trovarsi tra le righe di "Suicidio Occidentale", l'ultima fatica letteraria di Federico Rampini, firma del Corriere della Sera, inviato da tutto il mondo, con sede preferita negli States...
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Il discorso di Putin sul declino dell'Occidente sembra copiato dal tuo libro: allora ha ragione lui?
«Non posso usare Putin come testimonial. Anzi devo riconoscergli la primogenitura. Da molti anni lui articola una requisitoria contro l'Occidente, echeggiando discorsi simili a Xi Jinping. Da tempo i due autocrati vanno dicendo chiaro e forte che considerano l'Occidente una civiltà decadente, un malato terminale incapace di reagire e risollevarsi. Per loro non abbiamo valori da proporre al resto del mondo, solo tante colpe e tanta arroganza. Ma è più grave - questo è il nucleo del mio libro - che mezzo Occidente sia d'accordo con loro. Abbiamo al nostro interno correnti culturali e politiche che descrivono l'America come l'Impero del Male, l'unica vera potenza imperalista, l'unica che ha il Dna dell'aggressione, l'unica ad aver saccheggiato il pianeta e oppresso gli altri popoli».
Demolire l'autostima, colpevolizzarci, flagellarci: come e perché è nata questa ondata masochista e talebana?
«L'Occidente ha sempre nutrito nel suo seno delle correnti autodistruttive. Il nazismo, collegandosi al romanticismo tedesco, identificava nell'Occidente una modernità malsana, perché materialista e mercantile. Un'ostilità profonda verso l'America come baluardo occidentale ci fu nel cattolicesimo. Alcuni papi tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento attaccarono perfino i cattolici americani accusandoli di essere troppo modernisti e liberali, cioè quasi protestanti. Infine c'è la tradizione della sinistra socialcomunista che divenne egemone negli anni Sessanta e Settanta, nel mondo intellettuale e tra i giovani; anche quelli che non erano filosovietici come i socialisti italiani o i gruppuscoli extraparlamentari, consideravano l'Urss o la Cina di Mao come un male minore rii spetto al vero demonio che era l'America. La svolta pro-Nato del Pci con Berlinguer nel 1977 non fu condivisa da una parte della sua base. Molti in quelle famiglie politiche hanno sempre pensato che la prima guerra fredda dovevano vincerla gli altri».
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L'incapacità di reggere un dibattito pubblico che non sia fondato sull'ipocrisia, dalle armi, al ruolo della Nato, al racconto della dialettica Zelensky-Putin è una spia del declino culturale dell'Occidente? Anche l'opinione pubblica viene manipolata e violentata da slogan di comodo e apodittici come prefigurato in 1984 di Orwell?
«Scivoliamo a gran velocità verso comportamenti tribali. Chi ha accusato l'Italia di armare l'Ucraina non si è mai degnato di controllare quante armi stiamo mandando davvero: pochissime, mentre sosteniamo generosamente Putin comprandogli il gas con cui finanziai suoi massacri. Chi ha abbracciato senza esitazioni la propaganda di Putin sull'accerchiamento della Nato si guarda bene dallo studiare cosa accadde veramente negli anni Novanta: perché i paesi dell'Est vollero aderire all'Ue e al Patto Atlantico; quale ruolo fu offerto alla Russia nel G8. I fatti sono irrilevati, ci si schiera a priori con la propria tribù».
Ravvisi delle differenze tra il declino occidentale americano e quello occidentale europeo?
«La cancel culture, il neopuritanesimo sessuofobico, la censura intollerante contro chi non obbedisce al politicamente corretto: tutto ciò è nato in America però sta contagiando l'Europa. L'unico aspetto su cui è l'Europa ad essere ancora più decadente, è il ripudio del tema della sicurezza nazionale. L'Europa si è cullata nell'illusione di diventare la prima superpotenza erbivora della storia umana, rispettata dagli altri per la sua bontà. Ha cancellato il ruolo della forza e della difesa. In questo gli Stati Uniti sono meno auto-distruttivi».
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La battaglia di Putin per restituire alla Russia il ruolo di potenza mondiale autonoma non è velleitaria, visto che Mosca ha il Pil della Spagna e alla fine sarà costretta a scegliere tra Occidente e Cina?
«Putin ha già scelto la Cina e gli sarebbe difficile tornare indietro. In quanto all'arretratezza dell'economia russa, è stata una costante nella storia di quel paese. I grandi Zar come Alessandro e Caterina non riuscirono mai a farne una nazione europea alla pari di Inghilterra Francia Germania, però esaltarono il nazionalismo con le conquiste militari. I leader dell'Urss presiedevano un'economia fallimentare ma ciò non gli impediva di invadere di volta in volta la Polonia, l'Ungheria, la Cecoslovacchia, l'Afghanistan».
Dipendiamo più noi dalla Russia o la Russia da noi?
«La dipendenza è sempre biunivoca. All'epoca del comunismo sovietico, dirigenti pur sclerotizzati come Leonid Brezhnev ebbero l'astuzia di offrirsi quali partner affidabili per l'energia. Noi eravamo scottati dall'embargo petrolifero Opec del 1973 e l'Urss sembrava ben più stabile del Medio Oriente. La costruzione di infrastrutture come i gasdotti ha creato legami solidi di dipendenza. È la politica che conoscevano bene gli antichi romani quando mandavano in Europa le legioni accompagnate dagli ingegneri che progettavano strade ponti e acquedotti. Tutte le strade portavano a Roma, nel senso che le colonie erano costrette a dipendere dal centro dell'impero. Divincolarsi da questa dipendenza strutturale è un'operazione appena cominciata, sarà lunga faticosa e costosa. Ma Putin sta distruggendo una relazione di lunga data e ne pagherà le conseguenze, per esempio sull'accesso alle tecnologie avanzate».
Ritieni che la guerra in Ucraina sia stata in un certo modo cercata o che comunque poteva essere evitata?
«Putin la pianifica dal 2008, quando invase la Georgia. Poteva essere evitata usando l'unico linguaggio che lui capisce, la forza. Se Biden non avesse detto subito che escludeva l'invio di truppe, se Biden non avesse rifiutato a priori la no-fly zone, se non avesse offerto a Zelensky la fuga in esilio, se al contrario avesse detto ciò che ora dice su Taiwan e cioè che l'America interverrebbe a difenderla da un'invasione cinese; allora è verosimile che Putin si sarebbe fermato. La Nato è forte se vuole. Un pugile che si rifiuta di salire sul ring e si lega le mani dietro la schiena non incute timore all'avversario». Quanto sono divergenti gli interessi degli Stati Uniti rispetto a quelli dell'Unione Europea?
«C'è una divergenza economica, anche se meno importante di quanto si racconta in Italia. L'America ha una sostanziale autosufficienza energetica, quindi vive la crisi del gas in modo meno drammatico. Però i prezzi dell'energia li determina il mercato mondiale quindi l'automobilista americano è penalizzato quanto quello europeo, e la bolletta della luce sale anche negli Stati Uniti, sia pure un po' meno che in Italia. Per il resto io vedo un allineamento, non solo per la condivisione di valori. L'Europa ha interesse a investire nella sicurezza per potersi difendere dalle aggressioni; gli Stati Uniti hanno interesse a concentrarsi sulla minaccia cinese e quindi una difesa comune europea giova anche a loro».
L'Italia che ruolo può avere nella soluzione del conflitto? E l'Unione Europea?
«L'Italia vista da Washington è il numero quattro in Europa dietro Regno Unito, Germania, Francia. Non sovrastimiamo il ruolo di Roma, anche se Draghi piace alla Casa Bianca per il suo atlantismo. L'Unione europea ha riservato qualche sorpresa positiva quando Ursula von der Leyen ha anticipato Scholze e Macron sulla candidatura dell'Ucraina. Invece è in difficoltà sul dossier energetico dove non decide abbastanza».
Guerra, crisi energetica, inflazione: la tempesta perfetta: quanto e cosa rischia l'Occidente?
«Aggiungiamo la recessione. In America la Federal Reserve sta fabbricando una crisi economica perché per domare l'inflazione è costretta a deprimere la domanda di consumi e investimenti. Però siamo nazioni ricche e abbiamo le spalle larghe abbastanza per reggere una recessione. La crisi congiunturale mi sembra meno seria del dilemma che dobbiamo affrontare sul futuro della globalizzazione: ridurre la nostra dipendenza da potenze ostili non sarà facile né indolore, il conto sarà salato».
Sarà Pechino ad avere il ruolo decisivo per la fine del conflitto?
«Fino al vertice dei Brics appena concluso, Xi ha continuato a sostenere Putin senza se e senza ma. Anche lui paga dei prezzi per questo conflitto ma evidentemente guarda al lungo termine e vuole vedere l'Occidente umiliato».
Viste le premesse, pare che per Taiwan non ci siano molte speranze: verrà hongkongizzata?
«Prima devono riuscire a invaderla. L'Ucraina sta dimostrando a Xi che non sarà una tranquilla passeggiata. Nel lungo termine, certo, il riarmo cinese renderà sempre più difficile un'efficace difesa americana di Taiwan. Inoltre dobbiamo tutti prepararci alla possibilità che in America torni al potere un presidente isolazionista. Costui dirà al resto del mondo: visto che l'impero americano vi faceva tanto schifo, ve ne liberiamo».