Bruno Vespa su Mario Draghi al Quirinale: "Ecco perché conviene a Salvini e Meloni"
«L'Italia si ritrova ancora una volta alla fine di un ciclo, perché la Lega è cambiata e i Cinquestelle non vogliono più aprire il Palazzo come una scatoletta di tonno. Draghi è figlio della dittatura del Covid, senza l'epidemia e senza gli errori del secondo governo Conte, non sarebbe mai andato a Palazzo Chigi. L'ex banchiere è l'uomo dell'ultima fase di questo conflitto, che malgrado i dati dei contagi degli ultimi giorni credo sarà vinto, ma è anche un po' il De Gasperi dell'imminente Dopoguerra, colui che si troverà a gestire i miliardi che stanno piovendo sull'Italia, molti più soldi del Piano Marshall». Il premier ha fatto intendere che traslocherebbe volentieri al Quirinale, meglio se con un fidato a sostituirlo a Palazzo Chigi, in modo che il cambio di governo non interrompa la corsa del Paese, ma la maggioranza che lo sostiene è molto scettica e ancor più divisa sulle ambizioni del grande candidato. Prova a semplificare il quadro Bruno Vespa, il biografo della Repubblica, oltre che il presidente della Terza Camera e il notista di maggior corso in circolazione. «Il mio ragionamento è semplice: se Draghi non sarà eletto capo dello Stato al primo turno, non lo sarà mai, e a quel punto sarà un pasticcio pazzesco. Lui attualmente governa con una maggioranza del 90%, in più la Meloni, che è la principale forza d'opposizione, vuole mandarlo al Colle. Se il Parlamento non lo elegge, equivale a un voto di sfiducia, e allora chi glielo fa fare di rimanere a guidare un governo, che già ora è di una fragilità impressionante, in un anno di campagna elettorale, quando le forze politiche si riprendono la libertà di critica e di azione?». Deve restare per senso di responsabilità, sostengono più o meno in coro i leader dei partiti. Ma non si può trattare il salvatore della Patria come uno spiccia-faccende al quale delegare la sorte del Paese mentre i politici di professione si industriano su come disfare la tela di nonno Mario, per poi mandarlo in pensione una volta che avrà svolto i compiti. «Non si può prescindere da quel che Draghi vuol fare», sintetizza Vespa, «il premier si è sporcato le mani, non verrebbe calato al Quirinale dall'alto, come ex governatore della Bce, si è guadagnato la presidenza della Repubblica, perché dovrebbe farsi da parte per lasciare spazio a un altro?».
L'inventore di Porta a Porta ha scritto molti libri, ma quest' ultimo, Perché Mussolini ha rovinato l'Italia (e come Draghi la sta risanando), pare il terzo capitolo di una trilogia iniziata con Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi e poi proseguita con Perché l'Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus). Da bisnonno Silvio a nonno Mario, per un non casuale gioco del destino rivali nella corsa al Quirinale, che data la debolezza dei partiti assume un ruolo sempre più rilevante, tanto che la stessa eminenza leghista Giorgetti, il politico più vicino al premier, malgrado qualche incomprensione nelle ultime settimane, ha ipotizzato l'evoluzione del nostro sistema verso un semipresidenzialismo di fatto. E sullo sfondo, l'ombra del fascismo, che non c'entra nulla con l'Italia di oggi ma viene evocato dalla sinistra ogni qual volta il «La Lega è compatta, Gorgetti è il leghista più leale a Salvini» centrodestra minaccia di prendere il potere. «In campagna elettorale, scordiamoci il fair-play» è la fosca previsione di Vespa. «Ne abbiamo già avuto prova con lo spettacolo poco tranquillizzante delle elezioni Comunali. Sogno una competizione senza colpi bassi. Mi auguro vivamente che non si ritorni a episodi come il caso Fidanza».
Ritieni il caso Fidanza una montatura?
«Ho già detto più volte che in Italia non c'è il pericolo di un ritorno del fascismo. Auspico una campagna basata sulla reciproca legittimazione delle parti».
Fu così la campagna elettorale, perdente, di Veltroni, nel 2008, seguita dal Berlusconi partigiano di Onna. Da lì a poco però tutto ritornò come prima; anzi, forse i toni divennero ancora più violenti...
«È passato molto tempo, non credo invano...».
Sì, oggi Letta e Meloni si vedono e si fanno fotografare insieme con la frequenza di due fidanzati. Ma forse più in chiave anti-Salvini che per affinità elettive...
«La Meloni in questa fase mi pare più a sinistra di Salvini, che a sorpresa è diventato europeista...».
Perché, l'Europa sarebbe di destra?
«No, ma il modello di vecchia sinistra è sorpassato. In Francia la sinistra è praticamente esclusa dalla prossima competizione per l'Eliseo e in Germania di fatto non c'è stato avvicendamento: Scholz è la nuova Merkel e rappresenta la sinistra di un apparato dove il nuovo capo della Cdu è di centrodestra. Si respira un'aria diversa: la destra, anche se non va al potere direttamente, riesce a condizionarlo profondamente, anche in Italia, dove ha una perenne maggioranza relativa. In America sta tornando di moda perfino Trump...».
È per questo che Landini è sceso in piazza, più scandalizzando che sorprendendo il Pd?
«Landini sta facendo una serie di rivendicazioni che i partiti e il governo non sono in grado di soddisfare. Ha sentito un odore di moderatismo che non gli piace».
È una rottura con il Pd, tre mesi dopo la manifestazione anti-destra, che ha visto tutti i dirigenti democratici sotto il palco del segretario della Cgil?
«Era di difficile comprensione l'aver indetto uno sciopero generale. Una forma così aggressiva di protesta non era giustificata, non c'era un livello adeguato di tensione sociale, tant' è che la Cisl non ha aderito e i numeri non sono stati altissimi. Il Pd è stato sorpreso dalla dicitura "sciopero generale", che evoca scenari di totale rottura».
Landini quindi ha sbagliato?
«Pone problemi seri e legittimi, ma non risolvibili, perché gli italiani hanno stipendi bassi ma il Paese non cresce e quindi non ha risorse da distribuire. Il lavoro di Draghi e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza hanno il compito di trovare un punto d'equilibrio, che negli altri Paesi risiede nella flessibilità del lavoro, ricetta però ai quali i sindacati italiani sono allergici, anche se oggi un po' meno».
Ma allora hanno ragione i partiti: Draghi deve restare dov' è?
«Il punto è che questo governo non è in grado di reggere la bocciatura della candidatura di Draghi a capo dello Stato; e l'interessato l'ha avanzata e sulla carta dovrebbero sostenerlo tutti. Ci saranno anche franchi tiratori, ma lui parte dal 100%».
Quindi se Draghi non va al Quirinale la maggioranza si sfalda e il governo cade. Ma cosa succede se invece ci va?
«O si va al voto anticipato, ma la gran parte dei parlamentari non lo vuole, oppure si andrà avanti con una continuità precaria, con i ministri Cartabia o Franco promossi a Palazzo dei nostri connazionali; è entrato nel profondo del cuore di molti italiani: piaccia o no, è un pezzo fondamentale della nostra storia e ha maturato ulteriormente il suo profilo, il tempo è galantuomo con lui».
Farebbe bene a candidarsi al Quirinale?
«È il maggior ostacolo sul campo di gioco per Draghi, ma Berlusconi è concavo e convesso: in ogni caso farà in modo di non uscire sconfitto e, se si rendesse conto di non avere i numeri, finirebbe per mettere il cappello sulla nomina di Draghi».
Salvini ha fatto bene a entrare in maggioranza alla fine?
«Certo, anche se gli è costato qualche voto. È un investimento di lungo periodo che alla fine frutterà alla Lega».
Alla Lega di Giorgetti, intendi...
«Ha fatto scalpore la frase del ministro riportata nel mio libro, quando Giorgetti paragonò Salvini a Bud Spencer, campione di incassi, ma spiegò che lui gli stava facendo vincere l'Oscar come attore non protagonista, come Meryl Streep. Mi spiace di essere stato l'artefice dell'incidente tra i due, ma quel che ha detto Giorgetti non fa una grinza, è la spiegazione perfetta di quanto accaduto, lui ha sempre sostenuto che Salvini è il leader perché è quello che prende i voti; e io ne sono convinto quanto lui».
Se, in caso di elezione di Draghi, Salvini lascasse la maggioranza, la Lega si spaccherebbe?
«Sarebbero dei pazzi. La Lega è più compatta di quanto sembra e Giorgetti è il leghista più leale a Salvini».
Che però è un grande rottamatore, da Maroni in giù...
«Maroni rinunciò lui alla ricandidatura. E comunque, puoi mandare a casa un uomo ma non un'intera classe dirigente, specie se di alto livello come quella leghista. E per sostituirla con chi, poi?».
Doveva entrare nel governo anche la Meloni?
«No, lei ha fatto bene a chiamarsi fuori: in Parlamento ha numeri bassi e sarebbe stata irrilevante, avrebbe perso la propria verginità politica per nulla».
Il Pd è tornato a essere il primo partito, anche se nessuno sa spiegarsi bene il perché...
«Il Pd è la grande incognita, perché bisogna vedere dove arriva l'alleanza con M5S».
Vuole rubare i voti a M5S, che ormai sono definitivamente diventati una forza di sinistra?
«Non sono davvero in grado di dire cosa siano oggi i grillini. Anche Di Maio, che è stato il loro leader ed è cresciuto moltissimo, anche a livello internazionale, oggi pare un grillino per caso».
Che ne sarà del Movimento?
«Rischia l'estinzione, anche perché la diarchia tra Conte e Di Maio è un problema irrisolvibile».
Una poltrona per due, grande classico delle feste natalizie...
«Conte avrebbe dovuto fare un suo partito a giugno, ai tempi della lite con Grillo, quando era ancora forte e aveva un grande consenso»