Se la "Netflix della cultura" fa flop
Costato milioni durante il Covid, l'aggregatore per i contenuti (partecipato da Chili e Cdp) di Franceschini registra solo 50mila iscritti. Molti contenuti sono vecchi e a pagamento (come i film di Totò)
Fu quando il lockdown cominciò ad invadere le nostre vite –era l’aprile del 2020- che Dario Franceschini fece il grande annuncio.
Dalla trasmissione di Massimo Gramellini su Raitre, fiero della propria intuizione, il ministro della Cultura lanciò ItsArt (da “Italy is art”) «una sorta di Netflix della cultura», una piattaforma digitale per «offrire a tutto il mondo la cultura italiana a pagamento. Ci sarà chi vorrà seguire la prima della Scala in teatro e chi preferirà farlo, pagando, restando a casa», disse. Bene. Quello streaming emergenziale per anime belle che avrebbe aperto la via alla fruizione digitale del Mibac, oggi, col senno di poi, s’è rivelato un flop.
Finora, nei suoi tre mesi di attività (l’esordio vero è stato il 31 maggio scorso, la solita dilatazione proustiana del tempo), a detta del settimanale TPI, si contano «solo 50mila utenti registrati. Significa che hanno completato la registrazione del sito, appunto, non che siano abituali frequentatori». Scrive la rivista di Giulio Gambino: «Su una platea di milioni di persone, un risultato al di sotto le aspettative. In totale visualizzati 200mila contenuti in streaming». Pochino. il servizio pubblico della “cultura italiana a pagamento”, della “potenza di fuoco pazzesca a livello europeo”, come diceva Franceschini non ha esattamente funzionato. Dei 30 milioni di euro investiti di ItsArt (ne dovrebberro arrivare altri 10 col Recovery Fund) è rimasta una società controllata al 51% la Cdp, Cassa Depositi e Prestiti, da Chili, l’azienda di vod di Stefano Parisi. Di fatto la piattaforma mette on line a noleggio proprio i documentari di Chili per lo più prodotti nel 2015 di 20 minuti e 3 euro a puntata.
Uno dice: se è la Netflix del Ministero dei Beni Culturali dovrebbe esserci un archivio immenso e a basso costo nello spirito del servizio pubblico. No, invece. Giorgio Tacchia, ad di Chili, qualche mese fa, affermava assai prosaicamente che l’obiettivo è «fare soldi: più ne facciamo, più ne verranno girati a chi produce contenuti». E i soldi per l’investimento iniziale per i contenuti, 9 milioni, erano insufficienti per un progetto così eterogeneo; sono stati spesi soprattutto nello sviluppo della tecnologia del portale.
Ma soprattutto non si è capito perché si voluto escludere dall’operazione la Rai –in particolar modo l’offerta possente di RaiPlay e delle teche. A dire il vero pare che proprio l’idea del lucro non rientrasse nella mission di RaiPlay. Sicché, di fatto, in un paradossale cortocircuito, ora la stessa tv di Stato fa concorrenza a Franceschini il quale diffonde la cultura italiana –come spesso gli accade- con l’aiuto di privati.
Inoltre, ci si chiede, facendo il paragone con Netflix, Amazon Prime o Disney Plus (piattaforme con abbonamento mensile), perché un fruitore dovrebbe spendere, per esempio, 12,90 euro per documentari o 5 euro per film prodotti prima del 2000 che si possono trovare, a gratis, dappertutto. L’esempio classico sono i 3 euro noleggio/10 euro acquisto per visionare il cult Roma città aperta classico visibile da anni gratuitamente sugli vari archivi storici. Idem per film come Totò cerca casa passato in tv milioni di volte, ma qui disponibile a 4 euro al noleggio e 7 all’acquisto. Mah.
I magri risultati della “Netflix della cultura” hanno ovviamente stimolato la memoria dei cronisti più canuti. C’è chi ricorda che anche precedenti progetti digitali del ministero della Cultura, presentati con la consueta enfasi, avevano disvelato scarsa efficacia. Nel 2007, per esempio, ci fu il sito Italia.it presentato come un ricettacolo di straordinaria ed ecumenica italianità. E nel 2015, in occasione dell’Expo, sempre regnante Franceschini, si inaugurò in pompa magna il sito verybello.it. Anch’esso scomparso poco dopo. Alla luce di tutto ciò, ovvio che l’ibrido ItsArt risulti, diciamo «poco competitivo».
Ci sono anche critiche più sostanziali. Per esempio mancano i soldi per produrre contenuti in autonomia. Chili si limita a ospitare e distribuire contenuti altrui, magari enti istituzionali. Ma, scrive il Sole 24 Ore «le produzioni dei singoli enti sono spesso di bassa qualità»; e, di conseguenza, «se ci sarà uno sbarramento qualitativo si corre il rischio di lasciare fuori i piccoli». Il rischio, quindi è di aver pochi contenuti a prezzi fuori mercato; oppure tanti, ma di scarso valore. E questo modello, (in un mercato inzeppato sempre più di nuove piattaforme, contenuti fiction e non fiction, corsi on line ed eventi) manca il modello di business. Non a caso Wired constatava che «molti dei potenziali partner tecnologici che avevano manifestato interesse non a caso, si sono sfilati negli scorsi mesi, poco convinti dal modello di business». Epperò qui manca anche il modello di servizio pubblico. L'importante è la coerenza…