Walter Siti: "Mi premiano per la satira, ma io scrivo del dolore"
Il politicamente scorretto e Pasolini, la tv e Swift, Murgia e Pio e Amedei: lo scrittore, frescod el Premio di Forte dei Marmi racconta un suo lato inedito, quello della risata
Trattasi di un potente cortocircuito letterario. Se ci avessero detto che la prosa affilata di Walter Siti avrebbe vinto il Nobel, poteva starci. Ma che Siti, Premio Strega, talento alla Roth, scrittore d’invincibile emotività vincesse il Premio Satira Politica Forte dei Marmi nella sezione libri, beh, ci insuffla un certo straniamento.
Caro Siti, le danno il Premio Satira per il suo libello Contro l’impegno. La motivazione parla di “verve satirica”, lei ha la verve satirica? Soprattutto scusi, lei che c’entra con la satira?
«Me lo chiedo anch’io, io non credo di avere una vena satirica, quella leggerezza. Bisogna essere un po’ più allegri. Le mie cose hanno una certa pesantezza, io parto dal dolore. Semmai mi permetto qualche divertissment nella critica tv, ma so che quelle non sono questioni di vita o di morte. Per esempio, la gente non si capacita perché mi piacciono Pio e Amedeo».
Quei due matti dalla volgarità imponderabile vengono ora premiati con lei. E hanno rivendicato il diritto al politicamente scorretto.
«Se posso rimproverare una cosa a Pio e Amedeo è che hanno fatto un passo indietro: avevano annunciato di voler liberamente usare termini come “negri” e “froci”, invece hanno attaccato le tv che impedivano loro di parlare di negri e froci, che tra l’altro è un’espressione che tra omosessuali si usa tranquillamente, io la uso da vent’anni. Comunque la satira deve essere cattiva, deve colpire duro, può essere contraddittoria, specie quando infrange tabù. Si tratta poi di prendersi la responsabilità delle proprie parole e del contesto in cui le si pronunciano».
Si riferisce al caso di Charlie Hebdo, dove la satira antislamica ha causato attacchi terroristici e lutti infiniti?
<Anche. È una questione di contesto. Gli ebrei, tra loro si raccontano barzellette antiebraiche ma non lo fanno davanti a un rabbino in una cerimonia, per esempio. Così come non va bene perculare un morto davanti alle lacrime della madre…».
Siti, gliela metto giù secca. Il Premio Satira annovera nell’albo d’oro nomi come Sciascia, Campanile, Montanelli, Villaggio, Zavattini, Cipolla. Senza nulla toglierle, com’è possibile che siano finiti gli scrittori satirici e si ricorra ai Premi Strega, come lei? E perché non c’è più un giornale satirico a pagarlo oro?
«Ogni tempo ha il premiato che si merita. C’erano anche Benni, Serra ma sono spariti tutti, sì. La satira ripeto, è da sempre cattiva: è Aristofane che mette ferocemente alla berlina Socrate. La mia impressione è che l’anima del tempo ci ha resi psicologicamente cagionevoli; in periodi di crisi abbiamo bisogno di essere indirizzati alle certezze, coccolati, avvolti. Paradossalmente il pugno nello stomaco funziona nei momenti storici più stabili e ricchi. In momenti come quelli degli ultimi trent’anni, densi d’incertezze sentiamo il bisogno più di sorridere che di deridere».
Ma la di là dello spirito del tempo, restringiamo il campo. Non è che la satira politica difetti, in questo momento di materia prima: la politica?
«In questo momento, in Italia, è più facile fare satira sulla sinistra che contro la destra. Oggi, sparare su Salvini e Meloni - cosa ritrita - giova solo a Salvini e Meloni. Semmai per essere cattivi servirebbe sparare sui valori della destra: Dio, patria e famiglia. Si fa satira anche su Ius soli o legge Zan, ma poco e male. Invece provi a fare battute su tabù intoccabili, chessò Falcone e Borsellino o sui caduti di Nassirya. Lì si testa la bravuta del satirico. Mi ricordo sempre che ne Il Piacere, scritto da D’Annunzio a 22 anni, si parlava dei caduti di Dogali come di “quattrocento bruti morti brutalmente”…».
Lei partirà pure dal dolore, ma sa ridere. Con chi ride meglio: Totò o Woody Allen? Neil Simon o Fiorello? De Funes o I Simpson. Qual è, per lei, l’archetipo della “risata abbietta” per dirla col monaco Jorge del <>Nome della Rosa?
«A me piace qualunque tipo di scrittura che rovesci la prospettiva a testa in giù. Rido spesso. Ma se devo trovare un modello è La modesta proposta di Swift dove si risolvevano i problemi di sovraffollamento e fame della popolazione consigliando di mangiare i bambini. Una ferocia indicibile».
Il suo libello rovescia il compito dell’intellettuale militante alla Sartre. L’hanno accusata di “modernismo” e pregiudizi di “natura crociana” (qualunque cosa significhi)…
«C’è un equivoco di fondo. Io sono per l’impegno che non ostacoli la stratificazione del testo. La Divina Commedia è un’opera impegnatissima. Dante nell’Inferno ha una posizione politica contro l’Imperatore e pro-Comuni; mentre nel Paradiso può permettersi la posizione opposta. E non guarda in faccia a nessuno: s’immagini lei se uno potrebbe mettere, oggi, all’inferno Giovanni Paolo II, o Papa Francesco. C’è contraddizione anche in Santa Giovanna dei Macelli, dove Brecht parte dal marxismo e fa fare alla protagonista un discorso sulla violenza annegato nella santità, opposto al suo stesso pensiero. Ecco, l’impegno non teme la profondità e i cambi di rotta. Se un romanzo ti riesce come volevi e i personaggi non prendono vita propria, vuol dire che c’è qualcosa che non va. La cosa più innaturale e procedere per tesi precostituite…».
Faccia un esempio.
«La capanna dello zio Tom, romanzo volutamente abolizionista. Da giovane, nei miei viaggi omosessuali a San Francisco, i gay “velati” non dichiarati venivano chiamati in spregio “Zio Tom Gay”, Cassius Clay usava la stessa espressione sul ring con gli avversari che disprezzava, laddove lo Zio Tom era considerato un collaborazionista in un romanzo “impegnato” in modo sbagliato. Intendo dire per un impegno di questo tipo non serve un romanzo, è sufficiente un articolo di giornale».
Oggi va di moda la cancel culture, giganti come Philip Roth, accusati di sessismo smettono di esser pubblicati. Dove finiremo?
«Sono stupidate che vanno molto in America, non credo che prenderanno piede da noi. Noi siamo più liberali. Anche se le ricordo che anni fa pure Pasolini, dopo un processo con Ungaretti testimone sulla bontà dell’integrità dell’opera, fu costretto a riscrivere alcune parti di Ragazzi di vita. Anche a me in Autopsia dell’ossessione chiesero di edulcorare le parti su Berlusconi. Me la cavai inserendo delle frasi di Gadda su Mussolini, roba tipo “Mussolini cavaliere di nullo cavallo” o “faso tuto mi”, che si attagliavano perfettamente al Cavaliere. Fino al 1960, quando L’amante di Lady Chatterly, accusato di oscenità, venne assolto, la letteratura fu bersaglio di censura».
Non andò a processo - mi pare per Sodomie in corpo- anche Aldo Busi?
«Però lui vinse la causa, per farsi pubblicità avrebbe voluto perderla. “Mamma mi hanno assolto”, era afflitto quando chiamò la madre».
Sempre a proposito di eccessi. Michela Murgia insiste con l’uso della Schwa, la scrittura neutra contro le differenze di genere. Che ne pensa di quella selva di accenti, apostrofi “e” rovesciate?
«Michela ha usato lo Schwa per tutto il libro, una faticaccia. Sono convinto, da vecchio marxista, che per arrivare alla rivoluzione del rovesciamento del patriarcato non servono tanto le parole quanto i fatti. E questo uso ideologico della scrittura senza genere, crea enormi problemi, per esempio sulla punteggiatura. Inoltre, per scrivere serve relax, e pensare a lavorare con questi intoppi sul testo mette ansia. Michela l’ha fatto con un saggio; voglio vederla impazzire dietro a tutta quella grafica alle prese con un romanzo…».