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Papa Francesco e Orban, basta con le balle di regime. Cosa si sono detti veramente al vertice

Gianluca Veneziani
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Non è finito in uno scontro diplomatico l'incontro tra Papa Francesco e il premier ungherese Viktor Orbán, col primo a rinfacciare all'altro la mancata accoglienza dei migranti. Né è finito in una conversione di Orbán al vangelo dei bergogliani, con un suo cedimento al buonismo multiculti. L'abboccamento tra i due ieri a Budapest, nella Sala Romanica del Museo delle Belle Arti, al quale hanno partecipato anche il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin, il segretario per i Rapporti con gli Stati Paul Gallagher e il presidente della Repubblica ungherese János Áder, è stato invece ispirato a «un clima cordiale», con un'interessante convergenza sui macrotemi culturali, etici e religiosi, posta naturalmente la diversità di metodi da perseguire e le distanze sulle questioni socio-politiche. Per certi versi è sembrato quasi che Orbán "convertisse" Bergoglio e lo indirizzasse sulle priorità da affrontare. La comunione di intenti è emersa non solo dal colloquio in cui, come ha reso noto la Santa Sede, sono stati trattati «il ruolo della Chiesa nel Paese, l'impegno per la salvaguardia dell'ambiente, la difesa e la promozione della famiglia», fatto quest' ultimo non da sottovalutare viste le posizioni del premier ungherese sui gay.

 

 

VISIONE COMUNE
Ma la strana visione comune di Orbán e Francesco, pur se con tempi di reazione diversi, è venuta fuori soprattutto nelle dichiarazioni ex post. È stato Orbán, su Facebook, a parlare per primo di difesa del cristianesimo, rivelando di aver «chiesto a Francesco di non lasciare che l'Ungheria cristiana perisca». E questo mentre il Papa, davanti al Consiglio ecumenico delle Chiese e alle Comunità ebraiche dell'Ungheria, evocava invece «la minaccia dell'antisemitismo, che ancora serpeggia in Europa e altrove», definendola «una miccia che va spenta». Sembrava singolare che il premier dell'Ungheria - quindi una figura politica e laica - si ergesse a paladino del cristianesimo, laddove la massima autorità religiosa della Chiesa cattolica concentrava l'attenzione sulla questione - per carità, fondamentale - dell'odio anti-ebraico. Con un appello a contrastare ogni forma di discriminazione verso le religioni minoritarie, diverse quindi da quella cristiana: «In questo Paese voi, che rappresentate le religioni maggioritarie, avete il compito di favorire le condizioni perché la libertà religiosa sia rispettata e promossa per tutti», avvertiva Bergoglio. Più tardi tuttavia, approdato in Slovacchia, Francesco lanciava a sua volta un poderoso monito a tutela dell'identità cristiana del continente: «Come possiamo auspicare un'Europa che ritrovi le proprie radici cristiane se siamo noi per primi sradicati dalla piena comunione?», si chiedeva durante l'incontro ecumenico alla nunziatura di Bratislava.

 

 

IN SLOVACCHIA
«Come possiamo sognare un'Europa libera da ideologie, se non abbiamo il coraggio di anteporre la libertà di Gesù alle necessità dei singoli gruppi dei credenti? È difficile esigere un'Europa più fecondata dal Vangelo senza preoccuparsi del fatto che non siamo pienamente uniti tra noi nel continente». Vero, queste parole venivano pronunciate in Slovacchia e non in Ungheria, quasi a non volere cedere il punto a Orbán. E restava la differenza sulle vie per custodire questa matrice cristiana: per il premier ungherese occorre difendere le identità nazionali, per il Papa creare maggiore solidarietà tra i Paesi europei. Lo aveva già detto, del resto, ai vescovi ungheresi: «Davanti alle diversità culturali, etniche, politiche e religiose, possiamo avere due atteggiamenti: chiuderci in una rigida difesa della nostra cosiddetta identità oppure aprirci all'incontro con l'altro». Ciò detto, è un fatto che due personalità agli antipodi come Orbán e Francesco convergano in una medesima sfida culturale e religiosa a difesa delle radici cristiane. Saranno pure convergenze parallele, ma la grandezza della missione e la nobiltà dello scopo devono aver indotto i due "migliori nemici" a tendersi lamano. 

 

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