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Domenico Dolce, "quel giorno in cui a Lourdes...": il racconto pazzesco dello stilista, "davanti alla Madonna"

Alessia Ardesi
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Insieme hanno creato dal nulla un'azienda con oltre 5 mila dipendenti. Non si sentono imprenditori ma artigiani. Domenico Dolce e Stefano Gabbana da 18 anni non sono più ufficialmente una coppia. Ma si vogliono ancora più bene di quando la loro storia è iniziata: «L'amore si trasforma ed evolve. E saremo sempre una famiglia». Nel loro quartier generale, in Viale Piave a Milano, l'ufficio dove lavorano è pieno di quadri e immagini della Madonna, riferimenti all'Italia, e alla sua identità, a cui sono profondamente legati: un mese fa hanno portato il tricolore in passerella.


Qual è il vostro primo ricordo?
Dolce: «Di me piccolo, seduto davanti al negozio di abbigliamento di mamma Sara, che sognavo la vita che avrei voluto avere e che poi ho avuto. Non era facile immaginarsela: vengo da Polizzi Generosa, un paese minuscolo sulle Madonie dove nevica quasi sempre d'inverno e non c'era il riscaldamento».

Gabbana: «Di me che vado a mettere le barchette nella fontana di Piazza Giulio Cesare a Milano. Ho avuto un'infanzia serena e tranquilla».

Da che famiglia venite?
Gabbana: «Mia madre Piera era la portinaia di Via Previati 14 a Milano. A sei anni la aiutavo a fare le pulizie nelle case degli altri per arrotondare. Papà da cameriere divenne tipografo, stampava i rotocalchi Rusconi».

Dolce: «Mio papà Saverio era un sarto. Alla fine degli anni '60 decise di trasformare il suo laboratorio in un'azienda di confezioni a Milano: comprava i modelli già sviluppati in modo industriale».

Quindi lei ha imparato da suo padre?

Dolce: «Sì, anche se volevo fare l'architetto. Ho imparato a cucire da lui in sartoria, rubando il lavoro con gli occhi. Agli inizi degli '80 papà mi mostrò Gap, un giornale di moda. Capii che mi piaceva quello che vedevo. E così andai alla Sip, dove c'erano gli elenchi telefonici, per scegliere una scuola di moda. Dopo la Marangoni a Milano, andai da Correggiari».

È lì che vi siete conosciuti?
Gabbana: «Sì. Facevo il grafico pubblicitario, mi piacevano i vestiti e la moda - impazzivo per Fiorucci, ma non ne sapevo nulla. Un'amica mi suggerì di chiamare una persona che collaborava con Correggiari. Al telefono rispose Domenico».

E come andò?
Gabbana: «Feci un colloquio e mi presero nonostante non sapessi disegnare. Ma ero fantasioso e imparai ricalcando all'infinito i disegni di Domenico, che aveva un talento innato».

Avete cominciato a frequentarvi?
Gabbana: «Ero abbastanza ingenuo e capii solo una sera, dopo sei mesi che ci conoscevamo, che lui mi stava corteggiando. Al ritorno da una cena con amici Domenico mi disse: "Mi sono stancato di starti dietro. O ci mettiamo insieme o non ci vediamo più". Così è nato tutto».

E i vostri inizi lavorativi come sono andati?
Dolce: «Era l'84 e fu tutto molto difficile. Investimmo i due milioni di lire che avevamo, i pagamenti tardavano ad arrivare e restammo senza niente. Non avevamo nemmeno i soldi per fare la spesa. Spaccammo il mio porcellino salvadanaio e con quelle monete andammo avanti per una settimana, comprando focaccia e latte dal droghiere di Piazza Cinque Giornate».

Gabbana: «Se non avessi incontrato Domenico non so cosa avrei fatto. Tutto è stato possibile grazie all'amore che ci univa, ma anche a una serie di eventi fortuiti che ci sono capitati. Il destino ci ha aiutato».

Quando ad esempio?
Gabbana: «La prima sfilata in fiera, che riscosse un successo stampa pazzesco. C'erano Krizia, Ferré, Versace e Armani. Eravamo decisi a preparare anche la collezione successiva, e così a settembre ordinammo tutti i tessuti. Per realizzare i vestiti chiamammo un'azienda che già produceva peraltri stilisti; dopo pochi mesi ci diede il benservito. Cominciammo a chiedere alle altre società che facevano prêt à porter, ma nessuna voleva lavorare con noi. Con la morte nel cuore fummo costretti a disdire la prenotazione di tutti i tessuti».

E quindi niente sfilata?
Gabbana: «Aspetti. Andammo a passare il Natale a casa di Domenico in Sicilia. E raccontammo tutto quello che era successo alla sua famiglia. Dorotea, la sorella, ci propose di realizzarli insieme».

Ma come avete fatto senza le stoffe?
Gabbana: «Era l'inverno dell'84, quello della storica nevicata che bloccò tutto il Nord Italia. Le poste non riuscirono a consegnare la nostra lettera con la cancellazione dell'ordine. A Milano arrivarono tutti i tessuti e riuscimmo a realizzare la collezione».

La prima sfilata dove fu?
D&G: «In Fiera a Milano. Fu uno show art: camicie e giacche enormi e decostruite, scarpe bassissime, in controtendenza rispetto ai tempi. Dopo due o tre stagioni abbiamo capito che dovevamo trovare un nostro filone, e così pensammo la donna sensuale e neoromantica».

E nacque il marchio Dolce&Gabbana.
D&G: «Agli inizi avevamo un ufficio, all'interno di un palazzo di avvocati a Porta Vittoria, dove facevamo consulenza per altri marchi, da Lebole a Max Mara. Fuori dalla porta c'erano scritti i nostri cognomi. Avevamo partite iva separate, conti separati. Ma era scomodo, così decidemmo di fare una società: Dolce&Gabbana divenne il nome».

Siete credenti?
Dolce: «Moltissimo. Sono mariano, devoto alla Madonna. La fede è disciplina, è volontà senza condizioni: prego, vado a messa e partecipo ai pellegrinaggi. La distinguo dall'istituzione, la Chiesa, che è composta da uomini, che possono sbagliare».

Dove va in pellegrinaggio?
Dolce: «Lourdes e Medjugorje. A Lourdes anni fa mi si avvicinò uno dei volontari dicendomi che mi aveva riconosciuto e come mai stessi in fila. Gli risposi che davanti alla Madonna non esistono posizioni prioritarie. Cominciò a gridare: cosa ci facevo lì, visto che ero ricco e avevo tutto?».

Lei come reagì?
Dolce: «Dicendogli che si può andare a Lourdes anche per ringraziare. Tutti pretendiamo tanto, ma la vita è un dono di Dio, e la fede non è un juke-box; non si domanda e si ottiene secondo necessità, la fede va coltivata».

E lei Stefano, ha fede?
Gabbana: «Abbastanza. Ho ricevuto un'educazione cattolica e sono cresciuto all'oratorio Mater Amabilis. In chiesa cantavo e avevo una voce bianca così bella che mi facevano fare il solista. A don Antonio, prete giovane e bravissimo, parlai per la prima volta a 14 anni della mia omosessualità».

E cosa le disse?
Gabbana: «Niente, ma mi fece sentire accolto. A differenza di alcuni ragazzi che mi prendevano in giro per atteggiamenti che ritenevano diversi dai loro». Ci sarà l'Aldilà? Gabbana: «Sono un credente atipico: non penso vivremo un'altra vita così come siamo, ma forse ci reincarneremo».

Dolce: «Sì, c'è, con l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. E spero di andare in Paradiso - sorride - per diventare lo stilista degli angeli e dei santi». Come se lo immagina? Dolce: «Pieno di fiori, frutta, abiti di chiffon e seta per gli angeli. Mentre l'Inferno sarà pieno di fiamme, di tessuti sintetici, di lycra e nylon, di scarpe che fanno male ai piedi».

E il Purgatorio?
Dolce: «Con i disperati, quelli che non hanno mai amato, che girano il mondo ma non sono mai soddisfatti di quello che vedono o che possiedono».

Temete la morte?
Dolce: «Non ci penso, vivo il presente, che va conquistato ogni giorno, domani si vedrà».

Gabbana: «Ho un rapporto riservato con la morte. Quando mio padre se ne andò, dopo una lunga malattia, non ebbi una reazione violenta, soffrii in silenzio».

In che modo è nata l'amicizia e la collaborazione con Madonna?
D&G: «È sempre stata il nostro mito, non perdevamo un suo concerto e speravamo che indossasse prima o poi una nostra creazione. Un giorno, sfogliando per caso l'Herald Tribune, abbiamo visto una sua foto in cui indossava una gonna lunga di jersey con reggiseno di raso e maglia all'uncinetto nera della nostra collezione. Eravamo euforici».

L'avete contattata?
Gabbana: «Sì, attraverso un nostro pr americano. La incontrammo in un ristorante italiano di New York sulla 17esima. Entrò con un abito di scena perché stava girando Dick Tracy, prese le mani di Domenico e gli disse: "Tu sei un genio"».

Che donna è conosciuta da vicino?
D&G: «Una donna carismatica, capace di ascoltare, colta: ama il cinema neorealista e se vuole parla anche italiano. Ma con delle sue particolarità».

Quali ad esempio?
D&G: «Voleva provare i vestiti al buio, forse per non farsi vedere struccata. Una volta ci chiamò in un hangar degli studios a Los Angeles per il Girlie Show. Erano le sette di sera, faceva un caldo torrido e le abbiamo provato gli abiti in una stanza minuscola con una luce flebile. Ancora non ci spieghiamo come siamo riusciti a non sbagliare le misure».

Il settore moda è in ripresa?
D&G: «Sì. E assisteremo a un'evoluzione: nei mesi difficili della pandemia abbiamo avuto il tempo per apprezzare e riscoprire quello che prima non vedevamo. E quindi siamo riusciti, in parte, a riprendere coscienza di ciò che è bello e fatto bene. Siamo italiani, abbiamo l'orgoglio della bellezza e dobbiamo portarlo nel mondo». 

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