Variante Delta, Andrea Crisanti oltre il catastrofismo: lockdown? "Avremmo già dovuto farlo", ci vuole richiudere in casa
Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova e virologo in prima linea durante l’emergenza coronavirus, è preoccupato dell'avanzamento della variante Delta in Italia. "Per bloccare la circolazione della nuova mutazione del Sars-Cov-2, in grado di causare una malattia seria anche in chi ha già ricevuto una prima dose di vaccino bisogna passare dal paradigma del contact tracing, che non funziona, a quello del network testing". E sulle possibili zone rosse da creare nelle aree in cui ci sono più riscontri di variante Delta, spiega che "è velleitario. Bisognava muoversi prima". Insomma, oltre il catastrofismo. Ancora una volta. Dopo che il Cts, alla vigilia, ha spiegato di "ragionare su nuove zone rosse", ecco che Crisanti spiega che, a suo giudizio, avremmo già dovuto muoverci con dei lockdown.
"Le autorità inglesi sono molto preoccupate, e stanno cercando in tutti i modi di bloccarla, speriamo che ci riescano. Sicuramente esiste un allarme. La Delta è una variante che ha una trasmissibilità elevatissima, e questo ha un impatto anche sulla soglia dell’immunità di gregge. Inoltre, sembra che le persone che hanno ricevuto una sola dose possano ammalarsi e trasmettere il virus. La mutazione è in grado di causare una malattia seria. È stata evidenziata una sotto-variante della mutazione indiana, di cui si stanno studiando le caratteristiche. Purtroppo il virus è in costante evoluzione, ma lo è sempre stato", spiega il professore.
"La nostra capacità di uscire da questa emergenza deriva da due fattori: dalla durata della vaccinazione e dalla possibilità che non emergano varianti che sono in grado di contagiare e far ammalare gravemente persone vaccinate. Se il virus muta continuamente, esiste la probabilità teorica e non uguale a zero, che emergano varianti progressivamente sono più trasmissibili e contemporaneamente sono più resistenti al vaccino. Sfortunatamente il rischio non è uguale a zero. Il problema è che come tracciamo in Italia non va bene. Serve fare un lavoro completamente diverso, come dimostrato nello studio sulla popolazione di Vo’ Euganeo: bisogna passare dal paradigma classico del “contact tracing”, che non funziona, all’approccio funzionante del “network testing”, che va a testare tutte le persone potenzialmente entrate in contatto con la persona positiva, indipendentemente da quello che la persona dichiara", rivela in una intervista al Corriere della Sera.
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