Gabriele Albertini, perché non farà il sindaco di Milano (un mestiere che gli italiani non voglio più fare)
E' un lavoro con tante grane, sei oggetto di minacce e abusi d'ufficio, ti pagano troppo poco. Ecco i motivi per cui l'ex primo cittadino ha mollato
Il sindaco della grande città: un mestiere che oramai gl’italiani non vogliono più fare. Ci sarà un perché se Gabriele Albertini, evocato dal centrodestra come l’Adenauer dei Navigli e il messia della coalizione, ha definitivamente rifiutato la candidatura a primo cittadino di Milano.
Albertini ha -come si dice nella circostanza- opposto un reciso diniego. E ha confermato gli inderogabili motivi familiari (la moglie assai poco entusiasta) con sorriso mesto e un’elegante citazione da Shakespeare, “Oh se fosse dato di conoscer la fine di questo giorno che incombe! Ma basta aspettare la sera e la fine è nota”. E la fine, onestamente, era nota da mo’. Parliamoci chiaro. Perché diavolo Albertini avrebbe dovuto accettare di reinsediarsi per la terza volta a Palazzo Marino, a 71 anni, nonostante nei sondaggi risultasse sempre un passettino avanti rispetto all’avversario Beppe Sala? Il quale Sala ha ragione quando, sulle colonne del Corriere della sera citava, sulla durezza del mestiere, il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson: «quando gli oneri della presidenza mi sembrano più gravi del solito, ricordo sempre a me stesso che potrebbe essere peggio. Potrei essere sindaco». Al di là della gara alla citazione, amministrare una metropoli è un mestieraccio, è una garrota, è lacrime e merda, se non hai freschi lombi e l’entusiasmo del neofita. Ti tocca immergerti in una palude di scartoffie, atti, ordinanze, temibili ed eterne sedute di giunta; hai sempre l’elettore o il politico che ti chiamano per chiederti il favore specie all’appropinquarsi dei piani regolatori. Perdi in libertà, diventi bersagli più sensibili di ritorsioni o azioni dimostrative. Se decidi di bypassare la burocrazia, è matematico che ti arrivi l’avviso di garanzia per abuso d’ufficio. E poi ti pagano poco. Secondo la legge Bassanini a Milano e Roma, città metropolitane sopra i 500mila abitanti, lo stipendio può arrivare a 7500 euro più un 3% se la spesa per il tuo bilancio è sotto la media regionale e più un 2% se superiori alla media sono le spese procapite. Può sembrare un obolo sostanzioso, ma se si pensa che i parlamentari e i consiglieri regionali (con un’oncia della responsabilità dei sindaci) percepiscono il doppio e alcuni collaboratori Rai quasi il triplo; be’, l’ipotesi del “chi cacchio me lo fa fare” diventa la più percorribile. Soprattutto per chi, come Albertini, fa l’imprenditore, titolare dell'azienda paterna con il fratello Carlo Alberto, la Cesare Albertini S.p.A. (fondata dal padre Cesare nell'ottobre del 1932 e acquisita alla fine del 2017 dal Gruppo Bosch GmbH) che si occupa di pressofusioni in alluminio. Eppoi Albertini, oltre agli onori si ricorda perfettamente le grane del suo mandato. Quando, per dire, denunciò alla magistratura i costi pompati della Milano-Serravalle voluta da tutti i politici (finì con un danno erariale di 118 milioni di euro); o quando, convinto delle proprie idee conservatrici, evitò accuratamente di concedere il patrocinio al Gay Pride, tanto che, sotto il Comune si ritrovò, nugoli di attivisti omosessuali ad accoglierlo in coro: “Albertini vieni giù che sei frocio pure tu”. Che non era una cosa carina, diciamo. Ed è proprio per questo, per lo sfiancamento da bue che richiede il mestiere, che Albertini, forte dei trascorsi continuò la carriera politica prima in Senato e poi all’Europarlamento.
E non è un caso che, tranne a Napoli dove si sbenda dal sarcofago un Bassolino evidentemente tediato dai giardinetti e dai nipotini, in tutte le altre grandi città -da Roma a Torino a Bologna- non si riesca a trovare la quadra per una candidatura decente.
Certo poi Albertini, con un colpo di teatro si è espresso augurando ogni bene e ogni appoggio alla coalizione. E ha ribadito la “disponibilità nel corso della futura campagna ad accompagnare il candidato sindaco, sia nei contenuti, sia nella definizione e nella partecipazione ad una lista civica, fattore, secondo me, fondamentale per la vittoria elettorale". E ha spiegato che "per le sfide che aspettano Milano, il candidato o la candidata debba essere giovane -il 15 maggio 1997 avevo 46 anni- per rappresentare le categorie produttive in vista della imminente ripresa, e conoscere tutte le realtà di questa multiforme ed articolata città, anche quelle rese più fragili dalla pandemia”. Ma la verità è aveva ragione Massimo Cacciari. Fare il sindaco, in linea di massima, è una gran rottura di coglioni (altrimenti Zinga, Salvini e Meloni non sarebbero così defilati, o no?...)