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Giulia Bongiorno, "tutto cominciò con Andreotti": la verità mai raccontata, così l'avvocato è diventata regina

Renato Farina
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Mettiamoci nei panni di chi si trova ad avere per avvocato, anzi per avvocata, Giulia Bongiorno. Che cosa prova? Sicurezza. Non quella metallica dei lucchetti, ma qualcosa persino di spirituale. Il salmo dice: «Sono tranquillo come un bimbo svezzato in braccio a sua madre». L'accusato, se c'è lei, prova la stessa sensazione di Frodo Baggins che porta il peso infinito dell'anello e non ce la fa più, ma ecco viene afferrato dall'aquila e viene adagiato sulle morbide ali. Eppure lei è esile, una canna di fucile spettinata. Chi l'ha osservata in aula a Catania e l'ha scorta a Palermo mentre difendeva Matteo Salvini ha capito che c'era sì il capitano, con le sue pose vagamente marsupiali, ma aveva abdicato il comando alla generalessa, la cui unica imponenza sta nella tensione elettrica che la circonda e fa vibrare l'aria dei tribunali. Una protezione insieme elettrica e materna. Per questo osiamo dire «avvocata nostra». Lei che conosce il catechismo e la Salve Regina balza su: sacrilegio! Sicurezza che ha due ragioni. La prima è l'esperienza che si fa standole accanto prima e durante i processi. Questa donna ha la capacità di assorbire le preoccupazioni del suo cliente, non perché sia una maga della psicologia, ma per lo spettacolo in cui introduce quello che un momento prima si sentiva perduto e si trova al centro dell'officina di Vulcano. Non un secondo è perduto, si forgiano spade, lì dentro. Ha il suo metodo: Giulia lascia che il racconto del suo patrocinato, le carte dei pm, le memorie dei legali avversari entrino non nella sua pancia (non ne ha) ma nelle proprie ossa, si mescolino al midollo della sua scienza giuridica, diventando una pietra angolare del suo tempo, dei suoi sentimenti, del suo stesso destino. Quando vedi una che lavora così, resti incantato ma non rimbambito.

L'officina di vulcano

La seconda ragione per cui anche il più refrattario alla serenità si pacifica è la statistica. Non mi risulta abbia mai perso una causa. Lei mi risponde: «Dipende dall'obbiettivo. Se c'è la certezza della colpevolezza, vincere significa ottenere le attenuanti». Ho cercato di ricordare a chi si riferisse. Ma certo, a Francesco Totti. Nel 2004 era stato filmato mentre sputava a un danese. Lei riuscì a dimostrare che quella prova era stata raccolta tenendo fissa, ossessivamente, una telecamera su di lui, fino a moltiplicare l'impatto di un fatterello da quasi niente. Del resto i giocatori in campo non fanno altro che scatarrare... Pena ridotta. Per il resto ha portato tutti all’assoluzione. Ha imparato dai suoi maestri: lo scomparso Gioacchino Sbacchi, che la assunse a Palermo a 26 anni e la portò al processo Andreotti, di cui era difensore insieme a Franco Coppi, il secondo maestro. Diversissimi tra loro, e diversissimi da lei che ha attinto da Sbacchi la pazienza e lo scrupolo nello studiare a memoria le carte, fino a trovare un rigo in cui l’accusa incespica; mentre da Coppi ha raccolto la furia meticolosa e la prontezza di riflessi nel piazzare una batteria di cento domande al testimone. Legge cinque volte tutte le carte. Le sue note finiscono su fogli di diversi colori. Quelli più accesi laddove ci scappa il colpo fatale all’avversario, via via in toni pallidi per le questioni di gradazione meno decisiva. Ma una cosa – come le diceva Sbacchi – si trova sempre. Scusate la presunzione, ma io sono stato il giornalista che ha la primogenitura della sua conoscenza. Seguivo, mandato alle sue costole da Vittorio Feltri, Giulio Andreotti con tutti i suoi guai di mafia. Il 26 settembre si aprì il «processo del secolo» nell’aula bunker di Palermo. A sera, mi arrivò una chiamata in camera all’Hotel des Palmes. Era Andreotti: «Ha finito l’articolo? Vorrei che cenasse con me e i miei avvocati». Nella sua stanza, con il cardigan blu, stava seduto e versava del bianco il divo, pallido come sempre. C’erano al tavolo Sbacchi, Coppi e il suo avvocato storico, il modenese Odoardo Ascari, e poi c’era quella ragazzina smilza, 29 anni, ma ne dimostrava meno, e mi fu presentata. Giulia e io – i più giovani – non dicemmo una parola. Ho gli appunti di quei discorsi, qui cito solo il desiderio di Andreotti di avere una certa cassata-gelato dalla tal pasticceria, prima però il vitello tonnato. Capitò altre volte di ritrovarci a tavola con la medesima compagnia, e lei cresceva di udienza in udienza nella considerazione degli altri avvocati e di Giulio. Il mattino prestissimo accompagnava l’imputato a messa per fargli compagnia. Lei studiava e studiava. Andreotti non sopportava di vederla smunta perché dormiva poco e lavorava di domenica. Erano gli anni in cui la sinistra lottava per le 35 ore. «Pensa se ti vedesse Bertinotti», le diceva (lei lo imita). 

 

 

 

Studio e ancora studio

Il suo capolavoro fu al processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, e si risolse – come capita - in un disastro. Era successo che lei aveva smontato il movente dell’accusa. Secondo i pm Andreotti avrebbe commissionato alla Banda della Magliana l’assassinio del direttore di OP, perché in possesso di una copia integrale del memoriale Moro, consegnatagli da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quella pubblicata – dattiloscritta – sarebbe stata purgata da pagine scomode. Quella vergata a mano da Moro fu in effetti ritrovata dietro un’intercapedine (ma questo è un altro articolo) nel 1990. C’erano pagine inedite, tra cui quelle su Gladio. I pm dissero: allora è vero! Pecorelli ricattava Andreotti, era in possesso di rivelazioni che inchiodavano Belzebù. Bongiorno, come una egittologa con i geroglifici, meticolosamente, sotto la lente, con il raffronto sillaba a sillaba, paragonò le due versioni. Su Andreotti non c’era nulla di nuovo. Movente bruciato. Andreotti assolto! Fu così in primo grado. Ma in appello, di domenica sera, 17 novembre 2002, condanna! 24 anni per omicidio. L’avvocato svenne, era in motorino in piazza San Lorenzo in Lucina – mi disse la segretaria di Andreotti, Lina Vido, citando Dante, – e «cadde come corpo morto cade». Si appurò che tutto dipendeva forse dalla celiachia, ma la sberla era l’ingiustizia. L’aveva tramortita il pensiero che il suo assistito, fidandosi di lei, ora rischiava di morire - aveva 83 anni - lasciando sui propri cari l’onta di una condanna senza rimedio. Racconta adesso che quella volta Andreotti le diede una grande lezione. Le fece giungere una coppa d’argento, premio per una antica regata. Con queste parole incise: «Nelle regate chi gira per primo la boa spesso perde». Era lui che confortava l'avvocata nostra amen. Per lei, più importante che l’essere congratulata dopo la vittoria, era l’aver fatto contento il cliente mentre si aspetta la sentenza. Ho dato tutto, sono stata brava. In Cassazione Giulia, con Coppi, trionfò.

 

 

 

«E' giusto esserci»

Una curiosità mi sono tolto con lei. Ma Andreotti è stato assolto anche a Palermo, o è stato riconosciuto colpevole per fatti passati in prescrizione? Lei è arci-convinta e arci-decisa. «E' stato assolto. Punto. La Cassazione è chiamata a dare solo giudizi di legittimità». Insomma: la Corte d’appello ha legittimamente optato per la prescrizione, così come legittimamente il Tribunale aveva ritenuto di escludere qualsiasi ipotesi criminosa. Scrive il giudice estensore che «non è consentito scegliere quale delle due sentenze di merito sia più rispettosa dei consueti canoni ermeneutici». La Cassazione lascia che ciascuno si tenga la sua convinzione. E Giulia ha la sua. Fuori dello studio di Giulia Bongiorno in piazza San Lorenzo in Lucina ieri le facevano la posta con le telecamerine alcuni giornalisti. Telecamerine a parte, stesse scene di 25 anni fa. Da questa porta usciva allora Andreotti. Lei ne ha ereditato la scrivania, gli uffici, forse anche l’ironia e l’idea che non ci si ritira. Il crocchio di cronisti si spiega perché l’avvocata difende Silvia J., la ragazza che ha denunciato il figlio di Grillo e i suoi compari per stupro. Le vogliono spremere qualche parola. Giulia Bongiorno è una magra Pentesilea, la regina delle Amazzoni, e come tale difende il suo reame femminile. Del tutelare le donne offese ha fatto ragione di vita. Ha accettato di entrare in politica per questo. Con Michelle Hunziker ha messo su una fondazione che prova a strappare dal gorgo maligno queste sorelle indifese. Ma Draghi? Si scopre che è stata lei a spingere Salvini ad entrare nel governo, e a rimanerci. Ma come? Tu lo difendi dai comunisti che lo vogliono in galera, e poi lo convinci a unirsi alla congrega? «Qui Salvini mostra la sua tempra. Comprendo la contraddizione, e la capisce lui. Ma c’è qualcosa di più importante. E' una fase storica che non ha precedenti, stare al governo oggi coincide con il momento costituente del dopoguerra, persone diversissime gettano le fondamenta del futuro. Siamo al governo per spingerlo ad andare oltre. Oltre nelle riaperture. Oltre sull’immigrazione. Oltre sulla giustizia. Siamo con la Cartabia, ma non ci si può fermare alle regole e alle procedure, occorre una riforma più vasta e incisiva nel campo della giustizia penale». Stare al governo costa in termini di consenso... «Sono una che in tutti i campi crede debba prevalere l’etica delle scelte sulla convenienza della bottega. E' giusto esserci».

 

 

 

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