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Bruno Vespa, il figlio Federico e il dramma della depressione: "Anche con la migliore delle famiglie"

Giovanni Terzi
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ERRATA CORRIGE: nell’intervista realizzata da Giovanni Terzi a Federico Vespa e pubblicata su Libero il 10 maggio 2021 abbiamo erroneamente pubblicato una foto di Alessandro con il padre Bruno e non di Federico. Ci scusiamo per l’errore. 

Non è semplice essere capaci di fare i conti con se stessi, coni propri demoni e le proprie paure per comprendere come dover affrontare la vita senza buttarla via in modo assoluto. Riconoscere di aver bisogno di aiuto, di non potere essere in grado di affrontare le ansie e la depressione da soli è un atto di coraggio e di umiltà ma soprattutto è sintomo di amore verso la vita e rispetto verso se stessi. È la paura l'emozione più difficile e più complicata, da gestire. Mentre per il dolore si può piangere e per la rabbia si può urlare, per la paura, che si aggrappa silenziosamente al cuore, poco si può fare se non avere il coraggio di chiedere sostegno.

E così ha fatto Federico Vespa, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico, iniziando anni fa a mettersi in gioco andando in cura da psicologi e chiedendo aiuto. Federico ne è uscito, dalla depressione, ed è riuscito a gestire le ansie e le paure anche raccontandole in un libro, da lui scritto nel 2019 ed edito da Piemme, dal titolo "L'anima del maiale. Il male oscuro della mia generazione".

Da dieci anni coordini la rivista fatta dai detenuti di Rebibbia, «Dietro il cancello», insieme all'associazione Idee: che cosa ti porta umanamente questa esperienza?

«È qualcosa di totalmente nuovo e fuori contesto rispetto la vita che viene fatta fuori dalle mura del carcere e proprio per questo si tratta di una esperienza eccezionale dove incontri persone e realtà che mai avresti immaginato. In carcere, attraverso la curatela della rivista, inizi dei rapporti umani e profondi con coloro che sono detenuti e che, spesso, si trasformano in amicizia. Sai cosa ho trovato di straordinario nel rapporto con i detenuti?»,

Dimmi Federico...

«La gratitudine, un sentimento non sempre presente fuori dal carcere, nella nostra amata società contemporanea. Una gratitudine totale di chi si stupisce che tu abbia voglia di dedicarti a loro».

 

 

 

 

 

Certo che molti di loro hanno commesso crimini efferati: hai mai sentito pentimento?

«Sia pentimento che voglia di cambiare e di trasformare la loro vita e per questo sarebbe importante abolire l'ergastolo, il carcere a vita, anche se spesso un detenuto ha quasi paura ad uscire di galera».

Perché?

«Perché la società non sempre rende possibile il reinserimento nella vita professionale a chi è stato in carcere».

Hai parlato dell'abolizione del carcere a vita. Per quale motivo?

«Perché il carcere ha l'obiettivo di essere rieducativo e quindi non può esserci l'ergastolo. La Corte Costituzionale ha stabilito l'incostituzionabilità dell'ergastolo ostativo, ha detto, poche settimane fa, che il Parlamento avrà un anno per provvedere con una legge, ma che se a maggio del 2022 la nuova legge non ci sarà ancora, la norma che permette l'ergastolo ostativo verrà abolita perché "in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione"».

Che tipo di giornale fate a Rebibbia?

«È un mensile e trattiamo, approfondendoli, tutti gli avvenimenti della società. Parliamo di politica, sport, cultura e anche giustizia. Molti detenuti scrivono davvero bene ed i loro commenti sono davvero importanti».

Commentate anche le ultime notizie sulla Giustizia? Tu cosa pensi del caso Palamara e di quello che sta accadendo?

«Posso dire che, da figlio di un magistrato, queste cose le sapevo già vent' anni fa. A Palamara va il merito di aver aperto un vaso di Pandora che, se gestito bene, non potrà che determinare cambiamenti positivi».

Nel 2019, poco tempo prima dell'esplosione del Covid hai scritto un libro. Come è nata questa idea?

«È nato tutto in modo assolutamente casuale: grazie ad una mia collega di allora a RTL, sento la Piemme editore che mi racconta la loro volontà di pubblicare un libro di saggistica. In realtà l'unica cosa che potevo fare era un libro autobiografico sulla mia storia personale, essendo riuscito a curare l'ansia e la depressione».

Così hai scritto "L'anima del maiale. Il male oscuro della mia generazione". Che libro è?

«Come ho detto, è un libro autobiografico; ero già uscito dalla depressione e mettermi a scrivere su ciò che avevo passato è stato curativo e terapeutico. Il senso di questo libro è che puoi avere tutti i soldi di questo mondo, la famiglia più importante del pianeta ma questi non bastano a "comprare" la felicità e la serenità. Ci vuole altro».

 

 

 

Mentre scrivevi il tuo libro hai sofferto?

«Non ho paura a dire che ho anche pianto in taluni momenti».

Quali?

«Quando ho riaffrontato con la memoria i momenti della depressione. Scrivevo di sera, mi accompagnavo anche con un bicchiere di whisky per cercare di allentare la tensione nell'affrontare qualche passaggio, e a volte stavo male perché mi saliva il ricordo di quel periodo faticosissimo della mia vita. Vedi, la depressione è un male oscuro che improvvisamente ti prende facendoti diventare vittima di ciò che non sai, che non conosci e quindi non sei più in grado di superare questo scoglio da solo».

Ti sei fatto aiutare da psicologi?

«Sì, ne ho cambiato qualcuno, di terapeuta, prima di trovare la persona che mi è stata accanto davvero».

Il rapporto con la tua famiglia?

«È stato un rapporto complesso e articolato, che si è stabilizzato dopo che sono guarito. Ripeto: puoi avere la migliore famiglia del mondo, ma se non sei centrato e interiormente risolto a poco serve».

Li vedi spesso?

«Li ho visti oggi e sono stato felice. Con mia madre ho un rapporto speciale, ma anche con mio padre. Li osservavo oggi e spero che la vita li conservi ancora tanto tempo in salute».

Hai paura quando pensi che a loro possa succedere qualcosa?

«Da una parte sono ovviamente consapevole del fatto che non siano eterni, e però dall'altra vivo con terrore il giorno in cui non ci saranno più. Per questo cerco di godermeli e, per ciò che posso fare, tutelarli al massimo».

Quale è il male oscuro della tua generazione?

«Credo l’incapacità di vivere emozioni. I social e i nuovi media hanno come anestetizzato ogni forma di empatia e la mia percezione è che ci sia una sorta di paura a lasciarsi andare. Viviamo in un mondo dove l’importante è quanti like prendi sul profilo instagram ed abbiamo persone che ogni mezz’ora raccontano ciò che cosa stanno facendo. Tutto questo è frutto di una debolezza incredibile come se si volesse dire “io esisto”».

E la generazione che ha vissuto il Covid da quindicenni come sarà?

«Dipende se tutto finisce qui e si riprende davvero una vita normale, o se questa situazione si protrae ancora. Già adesso vedo i giovani che preferiscono fare partite sulla Play e non andare a giocare a pallone con gli amici e, secondo me, questo non fa bene».

Che cosa si potrebbe fare?

«Tornare alla realtà che, a volte sicuramente fa male, ma è espressione di vita. Più realtà nella vita delle nuove generazioni aiuterebbe a ritrovare empatia e socialità».

 

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