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Roberto Maroni "si è ammalato di tumore al cervello": Renato Farina e il sospetto sulla "persecuzione dei pm"

Renato Farina
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Ieri Roberto Maroni, dalla sua abitazione di Lozza (Varese), si è lanciato in un grido di gioia e di rabbia, ma solo con dita e tastiera, perché non è bene si agiti chi è in cura per un tumore al cervello. Ha scritto su Facebook: «Dopo 7 anni di tormento tutte le accuse strampalate contro di me sono finalmente cadute ed è emersa la verità: non ho mai abusato del mio ruolo di governatore della Lombardia. Chi in questi anni ha coperto di fango me e i miei collaboratori dovrebbe solo vergognarsi e chiedere scusa». La cosa nuova, e bella, è che l'ex ministro dell'Interno e governatore emerito della Lombardia si riaffaccia al mondo, dopo la delicata operazione del gennaio scorso, non per la propria personale assoluzione, quella è già stata certificata con la formula più ampia nello scorso novembre dalla Cassazione, ma per la conclamata innocenza di una sua collaboratrice sentenziata dal Gup in rito abbreviato. Maria Grazia Paturzo era intervenuta al processo come testimone, essendo parte dello staff di Maroni, e aveva osato negare di essere amante del suo capo, secondo lo stereotipo da commedia all'italiana che vige meno al cinema ma a quanto pare va forte nei Tribunali. Falsa testimonianza! A processo!, e al diavolo il rispetto dell'intimità altrui. Il filone principale del processo riguardava un viaggio a Tokyo (mai svoltosi) e le pressioni per dare un contratto ad un'altra signora in un istituto collegato con la regione. Maroni e diversi collaboratori furono condannati in primo e secondo a Milano. Sentenza ribaltata a Roma, pieno onore agli imputati, dopo oltre sei anni di torture. Che avevano portato Maroni a non ricandidarsi, come sarebbe stato scontato, alla guida della Lombardia. Restava questo serpente grigio. Assoluzione per la Paturzo con la formula-macigno «perché il fatto non sussiste» lo ha finalmente spiaccicato. Ma quel serpente grigio era già entrato nel cervello di Maroni. Dopo anni di titoli, accuse, udienze, condanne al carcere per sé e i propri consiglieri additati come farabutti e venduti, il tutto dovendo lottare contro fantasmi di accuse ridicole, alla fine può venir giù tutto, le difese in Cassazione vincono, ma quelle interiori alzano le mani, vieni avanti tumore, mangiami. Oltretutto stavolta c'era da lottare contro il fantasma anguillesco di accuse ridicole. Ferito però Maroni ieri si è rialzato. Un comandante è così, un leader politico deve avere questa dignità: sentire addosso il peso delle colpe addossate alla sua squadra, dispiacersi per le pene proprie ma più ancora per quelle altrui.

 

 

COMBATTENTE
Maroni resta candidato sindaco per Varese, elezioni a settembre. Non vuole arrendersi. Al tumore, ovvio, sa già che, a 66 anni, dovrà combattere per decenni, ma sa che tanti ce la fanno e vuole essere se stesso. Soprattutto però la sua è una testimonianza e insieme una sfida. Sta in piedi. Anche se gli è stato imbastito contro un processo fotocopia del primo, stavolta non libera il posto inchinandosi al potere intimidente dell'apparato tribunalizio. Anche stavolta c'è di mezzo un presunto beneficiato e un'altra presunta amante. Rinviato a giudizio, come l'altra volta. La prima udienza del processo era programmata per il 28 aprile, ma è stata rinviata a luglio per l'incombenza di quella massa anomala già operata. Niente da fare, Roberto resta lì, a combattere, su tre fronti, che elenco in ordine di cattiveria dell'avversario: giudiziario, sanitario, politico. Il difensore di Maroni, Domenico Aiello, è impietoso e impetuoso: «C'è voluta la Cassazione per dire la parola fine lo scorso novembre a una sequenza di fatti e atti che - con la sentenza della Suprema Corte in mano - mi viene da definire se non persecutori male orientati sin dall'inizio. Un preconcetto ideologico che ha portato a una raccolta di vociferazioni da comari. Immondizia senza sostanza giuridica. Non si è trattato di errorini, di qualche sbaglio nella qualificazione del reato, di interpretazioni dubbie, ma di una catastrofe, altrimenti la Cassazione non avrebbe assolto Maroni & C. senza rinvio del processo a Milano». Anche stavolta l'amante... Qui Aiello sbotta:«Guardassero i magistrati le vicende sentimentali che proliferano e determinano carriere nei loro corridoi, invece di fantasticare su quelle altrui, esplorandole come fossero la Santa Inquisizione. Santa di che? Ieri una Gup coraggiosa ha tolto definitivamente il sasso di mano ai lapidatori dell'adultera». 

 

 

Non c'era bisogno delle rivelazioni di Luca Palamara a Sandro Sallusti per sapere - dice Aiello - come non siano tanto i codici e la coscienza a determinare certe indagini. «Queste cose nei tribunali sono arcinote, ma il manto delle toghe copre pudicamente tutto». Ovvio che abbia ragione Matteo Salvini a dare una scossa risanatrice al sistema ormai corrotto fin nei vertici, a dispetto di tantissimi magistrati onesti ed equilibrati. Non è dall'interno che si può sperare un cambiamento tale da determinare una ripresa di fiducia nei cittadini che oggi, con una percentuale dell'88 per cento (vedi Libero di ieri), lo ritengono inaffidabile e ingiusto. 

 

 

PROCURE A SENSO UNICO
Sappiamo bene che per diritto divino la procura di Milano è affidata da decenni a Magistratura democratica, la corrente più di sinistra della magistratura. Ovvio che per devozione ambientale, sudditanza psicologica, non per malafede, ma per l'inerzia del gioco delle correnti togate, la giustizia abbia un occhio strabico e qualche volta inventivo specie a Milano contro gli oppositori politici. Questo abbiamo scritto a proposito delle inchieste su Attilio Fontana, e i magistrati hanno ricorso legittimamente alla querela. Ma come si fa a non essere critici davanti a storie come queste? Si ripetono ossessivamente accuse, le ipotesi di reato, sceneggiatura, cambiando solo i nomi delle figurine tranne quella di Maroni. È l'ineluttabilità del rito ambrosiano cui il leghista ha dedicato un libro. L'uomo sa scrivere. Parla benissimo della sua applicazione sociale e persino politica. Ecco cosa sostiene al capitolo 9 dal titolo «I cecchini della politica»: «Quando viene applicato in magistratura, il rito ambrosiano sconta un difetto molto grave: in linea generale non ha come risultato l'accertamento della verità, ma quello di mettere in piedi un processo sommario e violento, che porta all'inevitabile distruzione della dignità e della reputazione della persona coinvolta, alla sua condanna immediata emessa da giornali e tv, ancor prima che l'interessato riceva l'avviso di garanzia». Aggiunge: «Ho le spalle larghe, ho sopportato l'ingiustizia senza far casino, ma so che a tante persone innocenti questi abusi rovinano la vita. I magistrati che sbagliano dovranno essere chiamati a rispondere, prima o poi. Nell'attesa che questa politica esca dal letargo, con alcuni amici di buona volontà stiamo mettendo in cantiere iniziative interessanti ed ambiziose». Il referendum non è male. In attesa che un Parlamento sonnacchioso trovi il medesimo coraggio di Maroni nella sua dura convalescenza.

 

 

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