Letizia Moratti, l'intervista: "Il piano di Arcuri? Poco realizzabile. Vaccino in Lombardia? Ci diano il via libera per gli acquisti"
Una vita da numero dieci, da chi finalizza il gioco, per dirla all'opposto di Luciano Ligabue. Il ritorno della stagione dei tecnici non è iniziato da Mario Draghi ma da lei, la donna manager che era presidente, ministro e sindaco da ben prima che andassero di moda le quote rosa. È bastato che Attilio Fontana la chiamasse al suo fianco, come assessore al Welfare e vicepresidente della Regione, perché il fuoco di mitraglia che da un anno sparava ad alzo zero contro la Lombardia, neanche fosse un laboratorio di Wuhan, si quietasse. Evidentemente la signora incute timore riverenziale. Letizia Moratti non pare una donna indulgente, ti viene da chiamarla presidente anche quando è vice, però riconosce che, anche prima di assumere l'incarico, ha sempre pensato che «la Lombardia sia stata bersaglio di un'aggressione ingenerosa».
C'è stata molta politica in questa pandemia e il nuovo assessore bada al risultato, quindi scansa le polemiche di parte. Parla attraverso la realtà, e dice che «il numero dei decessi è stato esibito da media e politica come una colpa senza che ci si desse pena di spiegare che qui ci sono il doppio degli abitanti del Lazio, la seconda regione più popolosa d'Italia, e quanto a densità demografica e a dimensione economica e sociale siamo paragonabili ad aree metropolitane come New York o a Paesi come il Belgio. Ecco allora che ci si accorge che i numeri lombardi della pandemia non sono un'eccezione. E poi».
E poi?
«Se l'Organizzazione Mondiale della Sanità avesse dato prima l'allarme Covid, avremmo guadagnato tempo e ci saremmo risparmiati equivoci. Ricorda le polemiche per la mascherina di Fontana o per la quarantena ai cinesi chiesta dalle Regioni del Nord?».
Lei è una numero uno, perché il ritorno da numero due? Le mancava la politica?
«Non è questo. Negli ultimi anni non sono mancate le offerte».
Perché ha detto sì a Fontana e non ad altri?
«La situazione è grave, siamo tutti in gioco. Oggi, se vieni chiamato, non puoi che ringraziare, accettare e cercare di dare il meglio di te mettendoti al servizio». Ha posto qualche condizione per accettare? «Se non c'è il clima adatto per partire, non accetto mai. Ma con Fontana non c'è stato bisogno di porre condizioni. Lui cercava una manager di esperienza e la sintonia è totale. Mi conosce, sa che sono orientata all'obbiettivo e ho bisogno di lavorare in questo modo».
Questo nuovo impegno è solo una tappa per un ritorno a tutti gli effetti alla vita politica?
«Me lo chiedono tutti, ma in realtà il mio unico obiettivo è ricoprire al meglio l'incarico affidatomi. Poi l'altro grande tema sarà aggiornare la legge regionale sulla sanità».
La grande accusata: in che modo intende cambiarla?
«È vero che la sanità in Lombardia è troppo ospedalocentrica. Vanno rafforzati i medici del territorio e la cura a domicilio, anche sfruttando le possibilità che i nuovi mezzi tecnologici ci aprono. La medicina lombarda è un'eccellenza scientifica, dobbiamo solo avvicinarla di più ai pazienti».
Il 18 febbraio in Lombardia si parte con la profilassi agli ultraottantenni: cosa devono fare i nostri anziani?
«A partire da oggi gli ottantenni che vorranno aderire alla campagna vaccinale potranno comunicare al proprio medico o in farmacia la volontà di essere vaccinati. Basterà avere con sé tessera sanitaria e numero di telefono. Per prenotarsi potranno usare anche il portale vaccinazionicovid.servizirl.it».
L'obiettivo è ambizioso: cosa vi serve per raggiungere l'immunità di gregge entro giugno?
«Ci devono dare il vaccino. Lo sforzo organizzativo lo mettiamo noi, con la supervisione di Guido Bertolaso. Però è essenziale avere il vaccino, altrimenti ogni sforzo è vano». Sembra che in Lombardia non si possa far nulla senza Bertolaso, eppure il suo ospedale in Fiera è stato molto criticato, per i costi e le questioni logistiche: lei cosa ne pensa? «Bertolaso sta prestando la sua opera a titolo gratuito, per puro spirito di servizio. Lui, come Draghi, non solo sta mettendo a disposizione del Paese la propria competenza ed esperienza, ma anche i valori che lo sostengono, e in questo senso è di grande esempio per le nuove generazioni. Quanto all'ospedale in Fiera, realizzato con donazioni dei privati, fra cui anche i lettori di Libero, i fatti purtroppo hanno dimostrato che serviva e che le critiche della scorsa estate erano molto fuori luogo».
Di chi è colpa se abbiamo pochi vaccini: Unione Europea, case farmaceutiche, governo Conte o commissario Arcuri?
«Un po' di tutti e di nessuno. Certe scelte all'origine dei ritardi sono giustificate da motivi oggettivi, ma non possiamo consolarci con le scuse. Adesso bisogna lavorare per risolvere i problemi in fretta. La Commissione Europea non è stata celere come la situazoine avrebbe imposto».
Lei reclama vaccini, Zaia li vuol comprare per il Veneto ma il Pd e la Ue dicono di no: con chi sta?
«Sto con Zaia, naturalmente. Siamo pronti in Lombardia ad acquistare i vaccini con il benestare di Aifa e del governo. Auspico che l'esecutivo Draghi possa procedere rapidamente ad acquistare le dosi necessarie ad accelerare il piano vaccinale da subito».
Avverto una punta di fastidio nel suo bisogna fare presto
«Non bisogna perdere di vista l'obiettivo. Vanno accelerati i tempi, anche quelli della scienza. Molti vaccini sono in fase di sperimentazione avanzata, bisogna correre, l'effetto della profilassi ha una durata limitata, rischiamo di non riuscire a ottenere l'immunità di genere prima di riuscire a finire il giro delle iniezioni. Nel rispetto dei protocolli, l'Ema, l'Agenzia Europea del Farmaco, deve darci una mano. E anche l'Aifa, la sua corrispondente italiana, deve tener conto del problema di sanità pubblica che impone l'accelerazione delle autorizzazioni. Il caso Astrazeneca è emblematico». Cosa non va in Astrazeneca? «In Germania e Francia Astrazeneca viene somministrato fino ai 65 anni. Anche l'Oms è d'accordo su questo. Non si capisce perché l'Aifa lo preveda qui in Italia solo sotto i 55 anni con effetti pericolosamente discriminatori, per esempio nella scuola».
Cosa c'entra la scuola?
«Correttamente gli insegnanti sono stati inseriti tra le categorie con diritto di precedenza nella profilassi. Però i professori sopra i 55 anni sono tanti. Se non possiamo immunizzarli con Astrazeneca rischiamo di avere metà corpo docente, peraltro, quello più fragile, esposto al contagio e non avremo mai una scuola in sicurezza». Scuola, grande dimenticata. Lei è stata anche ministro dell'Istruzione: noi siamo stati i primi a chiudere le classi e gli ultimi a riaprirle, le piace la didattica a distanza? «Si ricorda le famose tre "I", inglese, informatica, intershipment, ovverosia stage in azienda? Quando ero al ministero, nel 2003, proposi la connsessione internet e la formazione digitale per tutte le scuole. Elaborai un piano che purtroppo abbandonato dai miei successori».
La (ex) ministra Azzolina la scorsa primavera sosteneva che con la didattica a distanza si studiava meglio, poi in autunno ha detto che si imparava di meno: cosa ne pensa?
«La Dad è complementare, serve per orientare i ragazzi al lavoro. La formazione in presenza, anche al liceo e all'università, è fondamentale. Sono d'accordo con Bergoglio quando parla di catastrofe formativa».
Si sarebbe potuto fare qualcosa di diverso?
«Affrontare il tema scuola durante una pandemia è arduo. Quello che di certo è stato sbagliato è stato approcciarlo in maniera disgiunta dalle infrastrutture e dai trasporti, sui non è favorito il distanziamento. La vicenda dei banchi a rotelle è esemplare di come i problemi siano stati aggrediti in maniera eccessivamente settoriale. Bisogna stare lontani, si rimpicciolisce il banco e lo si rende semovibile. Poi i ragazzi ci fanno l'autoscontro e tu cosa gli vuoi dire?».
Ha suggerimenti da dare a Draghi nella lotta alla pandemia?
«Non mi permetto. Mi limito a puntualizzare che è fondamentale consentire ad Astrazeneca di ampliare i soggetti a cui può somministrare il suo vaccino, spingere su Ema e Aifa perché rendano più rapida la valutazione e l'approvazione degli altri sieri che stanno arrivando, come avvenuto in Inghilterra, lasciare eventualmente libere le Regioni di acquistare sul mercato le dosi mancanti per questi mesi. E poi, come suggerito anche dal professor Remuzzi, predisporre siti produttivi sul territorio e valutare l'allungamento dei tempi tra la prima iniezione e la seconda».
La convince il piano vaccini di Arcuri?
«Nella pratica è difficilmente realizzabile. Mancano le dosi di Pfizer e Moderna per vaccinare tutti». Però lo scorso governo non si fidava delle Regioni... «Non sempre le nostre istanze sono state considerate».
Perché le Regioni sono per lo più di centrodestra?
«Io ho visto piuttosto una diffidenza bipartisan. Tutte le Regioni hanno lamentato mancanza di comprensione delle esigenze dei territori da parte del governo».
Speranza è rimasto al suo posto, Boccia e Conte no, Arcuri forse: che ne pensa?
«Mi auguro un rinnovato spirito di leale collaborazione istituzionale».
Però Speranza ha bocciato il piano vaccinale della Lombardia
«Non è stato bocciato ma rimesso alla valutazione del Comitato Tecnico Scientifico. Noi lo abbiamo proposto come possibile modello ingegnerizzato da poter applicare anche ad altre realtà e il viceministro Sileri ne ha riconosciuto il valore».
Non nascondiamoci dietro un filo d'erba: esiste un problema tra Regione e governo centrale nella gestione della pandemia? «Chi si appella al sentimento di unità nazionale poi deve coltivarlo. Io offro la mia disponibilità e collaborazione per un confronto leale e costruttivo, si richiede altrettanto a tutti i livelli istituzionali».
Meno male adesso al governo sono tornati i tecnici: è contenta?
«Draghi è una scelta eccellente. Ho apprezzato il suo discorso agli studenti, quando ha detto che un politico deve avere coraggio e mantenere umiltà: stava parlando dei principi che gli hanno permesso di affrontare la crisi dell'euro, da cui dipendeva la tenuta dell'Europa. I tecnici portano esperienza e anche valore, ben venga la loro stagione».
Il loro arrivo è il fallimento della politica?
«Io direi piuttosto che è una rivalutazione delle competenze».
Lei, Draghi, Bertolaso: il ritorno dei 70enni significa che non abbiamo una nuova classe dirigente?
«Il problema del rinnovamento della classe dirigente è legato al modo in cui essa viene selezionata. Forse utilizziamo dei criteri fallaci».
Le quote rosa sono un criterio valido?
«A me non sono mai piaciute, bisogna scegliere professionisti, non comparse. Se questo governo dev' essere come la Nazionale di calcio, ci devono i migliori. Detto questo, la situazione del lavoro femminile in Italia è molto migliorata recentemente e le quote rosa ne hanno un piccolo merito. Per aiutare davvero le donne però la chiave è fare in modo che lavoro e maternità non entrino in conflitto, perché la loro inconciliabilità porta alla denatalità e al fatto che chi fa famiglia va incontro a carriere bloccate».
Il governo retto da tutti non rischia di essere un minestrone?
«Nel 1945 il governo di unità nazionale era necessario per avviare il rilancio. Ora lo è per garantire il diritto alla salute, al lavoro e allo studio». Perché per garantirli la politica ha dovuto fare un passo indietro? «Non è un passo indietro, ma una presa di coscienza della necessità di una corresponsabilizzazione nella gestione del Paese delle migliori espressioni della società. La politica ha alzato il livello della sua azione, mettendo in secondo piano gli interessi elettorali e di partito. Solo insieme, con spirito di squadra, ne potremo uscire».