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La cultura italiana dimezzata nonostante gli aiuti di Stato

Il ministro della Cultura Dario Franceschini

Il settore è allo stremo, ma per mostre, editoria e spettacoli

Francesco Specchia
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La cultura italiana è come il visconte di Calvino: dimezzata e immersa in una tragicommedia. Il lockdown da Covid 19 non ha avuto pietà: ha spazzato con rara ferocia l’indotto del settore, portando al -47% i consumi di beni e servizi culturali che passano da 113 euro di spesa media mensile per famiglia di dicembre 2019 a circa 60 euro a dicembre 2020.

Il dramma - secondo uno studio dell’Osservatorio di Impresa Cultura Italia-Confcommercio, in collaborazione con Swg- attraversa democraticamente quasi tutti i campi della cultura. Nonostante una voglia insopprimibile della gente di godere di spettacoli dal vivo (li vuole l’80%, dato certificato da un’inchiesta da Stefano Curti del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia), lì, per esempio, si registra un “crollo degli spettatori di circa il 90% per cinema, concerti, teatro e forti riduzioni di spesa, con punte di oltre il 70%, da parte dei consumatori tra dicembre 2019 e settembre 2020”. Tiene, invece, la lettura dei libri rispetto al primo lockdown, “con una preferenza per il cartaceo sebbene oltre 1 italiano su 3 utilizzi anche il formato digitale, che dei quotidiani, consultati principalmente in versione gratuita online”. Altro dato preoccupante: sono in calo tutte le forme di abbonamento a servizi culturali a pagamento “ad eccezione della tv in streaming (+17 punti su dicembre 2019) e con un terzo di italiani che pensa di utilizzare prevalentemente piattaforme streaming a pagamento a testimonianza di un crescente interesse per questo tipo di offerta tv rispetto a quella generalista”. Si digitalizza sempre più la fruizione di concerti, opere, balletti, musica classica, che vanno sul web o in tv; pur mancando il rapporto fisico col pubblico, e sostituendo la tecnologia con l’anima dell’opera, suggeriscono gli artisti. La fruizione culturale, giocoforza, s’è dovuta piegare al virus e al volere degli dèi. Ma non è questo il punto.

Il punto sta nella strategia di sostegno del settore. Dice Carlo Fontana, Presidente di Impresa Cultura Italia-Confcommercio: “E’ stata fatta una politica di ristori, ma non è sufficiente. Oggi è necessaria una strategia con una serie di interventi che consentano una ripartenza delle nostre attività perché la popolazione non può essere ancora per lungo tempo privata di quello che è anche un nutrimento dello spirito”. La cultura italiana, insomma, sull’orlo del baratro, piange miseria. Ma se, da un lato, ci si chiede perché nell’ anno pandemico teatri, cinema e gallerie (e scuole, che richiedono un discorso a parte) sono state chiuse a fronte di centri commerciali e discoteche aperte; dall’altro ci si domanda quale benefici abbiano davvero portato i suddetti ristori a pioggia. Non è che il Mibac abbia lesinato gli aiuti. Anzi. Al 29 dicembre scorso era di 60 provvedimenti per oltre 11 miliardi di euro il valore delle misure varate dal Ministero per i beni culturali “per contrastare gli effetti drammatici della pandemia nei settori del turismo e della cultura”. Alcuni sono stati stanziamenti -diciamo- intensi, certo, ma generici: come gli 80 milioni di euro in più nel ‪2021-2022 “per la tutela del patrimonio culturale” e i 50 milioni aggiuntivi nel 2021 e 70 milioni in più a partire dal 2022 fino al 2031 “per il Fondo Grandi Progetti Beni Culturali”; o  i 53,6 milioni di ristori “per sostenere le tante piccole realtà Extra Fus attive in teatro, musica, danza e circo”. E ancora: i 50 milioni in più per il Fus a partire dal 2021 che arriva così a 400 milioni di euro annui; o i 27,5 milioni per rafforzare il personale nei luoghi della cultura, “125 milioni di euro aggiuntivi nel 2020 per investimenti nel cinema e audiovisivo con il potenziamento del Tax Credit produzione e distribuzione cinematografica”. Altri finanziamenti premiano alcune categorie piuttosto che altre: 252 milioni a sostegno dei lavoratori autonomi e intermittenti del mondo della cultura e 93 milioni “per sostenere autori, interpreti, esecutori e mandatari per la riscossione del diritto d’autore”, e soltanto 5 milioni per far sopravvivere i fornitori “di beni e servizi per lo spettacolo: sartoria, modisteria, parruccheria, produzione calzaturiera, attrezzeria”.

Altri soldi ancora insistono su iniziative lodevoli ma di non grande -almeno finora- redditività, tipo i 60 milioni in più per 18 App, il Bonus Cultura da 500 euro per i neomaggiorenni e ulteriori 150 milioni “per garantire la misura anche ai giovani che compiono 18 anni nel 2021”. E, a proposito di criteri di scelta: sono 640 milioni totali di euro per il Fondo Cinema e Audiovisivo per il 2020, mentre solo 75 per l’editoria (ai traduttori, i figli della serva, vanno 5 milioni). Insomma. L’impressione è che, nonostante la buona volontà del Ministro della Cultura nell’accontentare ognuno, alla fine si sono un po’ scontentati tutti con - una “politica dei ristori” di corta gittata senza precise idee di sviluppo dei settori. E i soldi del Recovery ancora devono arrivare. Non è stata una prerogativa soltanto del dicastero di Franceschini, intendiamoci. Ma se indaghiamo nella selva delle “mancette” contenute nella legge di bilancio, ci accorgeremo che la cultura rimane, nell’immaginario governativo, un po’ la figlia della serva. In questo caso, di una serva povera…







 

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