Marco Travaglio sotto attacco da sinistra, il libro che svela come mozza teste: porcherie contro Berlusconi e Salvini
E sia fatta ingiustizia. C'è un filone culturale in Italia, che passa da certa magistratura, attraversa l'anima profonda di partiti e movimenti, e viene incentivato da giornalisti-guru e relativi quotidiani, che può riassumersi in uno slogan: «Dovrebbero andare tutti in carcere». In quest' ottica la Legge smette di essere una tutela dei diritti individuali e diventa una clava da usare contro i medesimi, la Giustizia non è più giusta, guidata da prudenza e clemenza, ma punitiva, e la Pena, lungi dall'essere riabilitativa, appare animata solo da spirito di vendetta.
L'aspetto più inquietante è che, in questo scenario, tutti finiscono per essere potenzialmente colpevoli, vittime di un clima di sospetto ispirato da principi apparentemente nobili (riaffermare il Bene contro il Male), ma con ricadute pericolosissime per la nostra libertà. Non è l'immagine di un mondo distopico ma è la lucidissima fotografia del nostro Paese scattata da Luigi Manconi e Federica Graziani nell'interessante saggio Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale (Einaudi, pp. 260, euro 17,50). I due autori, lui già senatore e storico esponente dei Verdi, lei giornalista e segretaria del Presidente della Commissione dei diritti umani in Senato, mettono in luce la pretesa di alcuni censori-inquisitori, novelli Savonarola e Robespierre, convinti di essere l'incarnazione della Purezza, di voler «redimere l'altro», anche a costo di cancellarlo, di mozzargli la testa. Per il suo bene, si intende.
L'IDEOLOGIA
Questa forma mentis, che si traduce al contempo in una ideologia e in una prassi e prende il nome di giustizialismo (dimostrandosi, come tutti gli -ismi, una patologia), presenta diverse declinazioni. In primo luogo, essa si nutre di moralismo, mescolando volutamente il piano giuridico con quello dell'etica, e confondendo reato e peccato. Quindi è mossa da rivalsa sociale, da invidia o disprezzo verso alcuni bersagli facili (ad esempio, i politici), genericamente identificati come una banda di manigoldi al suon di «sono tutti ladri». E, ancora, si esplica attraverso l'appello a un sempre maggiore interventismo della magistratura da un lato, e a un ricorso alla gogna mediatica e ai tribunali di piazza dall'altro.
Assumendo, in questa doppia forma demagogica, le vesti di quello che i due autori chiamano «populismo penale». Ebbene, il capofila di questa schiera di manettari, di questi Torquemada del Terzo Millennio, è identificato dagli autori in Marco Travaglio, definito uno dei «moderni lugubri inquisitori», «il frontman aggressivo e sgraziato di tutte le battaglie più tetre in campo giudiziario». In modo meticoloso, con una radiografia dell'homo travaglius forcaiolus, Manconi e Graziani ricostruiscono i tratti tipici del suo operare e giudicare. Travaglio viene paragonato a Javert, l'ispettore implacabile del romanzo I miserabili di Victor Hugo: come quello, è convinto che «la verità sia una soltanto», la sua, sentendosi egli stesso l'unico depositario del Bene. Da ciò la sua «arroganza» verso chi la pensa diversamente, ma anche la sua «intransigenza» verso i bersagli delle sue invettive, che per lui sono sempre colpevoli. Per dare forza a questa "sua" verità, Travaglio va alla caccia inesausta dei dettagli, nutrendo un'ossessione quasi feticistica per «le bugie dei potenti» e le loro contraddizioni, onde avere materiale sufficiente per inchiodarli; allo stesso tempo però difetta di astrazione, essendo lui «insofferente a qualsiasi teoria», a ogni elaborazione concettuale, da lui derubricata a fuffa.
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Queste attenzione e fedeltà ai fatti, funzionali a esprimere sentenze inappellabili di condanna, tuttavia vengono meno quando si tratta di dare credito a personaggi come Massimo Ciancimino o Antonio Ingroia, nei cui confronti Travaglio si mostra stranamente indulgente, nonostante i fatti dovrebbero indurlo a esprimere verso di loro giudizi inflessibili, e non ad architettare congetture per giustificarli. Ma il direttore del Fatto quotidiano è fatto così: «Pare far tornare i conti della giustizia in ragione più della connivenza amicale che dell'equità». Verso tutti gli altri, invece, Travaglio adotta un linguaggio violento corredato di offese gratuite: si pensi all'epiteto «la poveretta» destinato a Gaia Tortora, la figlia di Enzo, al «Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere» riferito all'ipovedente Manconi o allo sgradevolissimo «più che creare posti letto, ne ha occupato uno», indirizzato a Bertolaso, nominato consulente per l'emergenza sanitaria in Lombardia e appena colpito da Covid. In alternativa Travaglio, evidentemente credendosi molto spiritoso come tutti i colleghi del Fatto, aspiranti «epigoni di Alberto Lionello», si abbandona a giochini di parole e storpiature dei nomi, degni di un'«ironia da bar o da addio al celibato» che fatica a far ridere; e spesso nutriti, non da adolescenziale allegria, ma da un tono malmostoso e risentito, dalla «stizza» più che dalla voglia di far satira. Il dramma tuttavia, lasciano intendere gli autori, non è Travaglio in sé ma è Travaglio in tutti noi, come avrebbe detto Giorgio Gaber; ossia è la sua influenza su una mentalità che rischia di diventare dominante e ha riscontri evidenti in politica.
Lo stesso governo giallorosso, benedetto dal direttore del Fatto, può considerarsi il condensato dei tic travaglieschi sulla giustizia, come dimostra l'impegno dell'esecutivo Conte Bis a sostegno del carcere per gli evasori, del blocco della prescrizione e del no al bavaglio sulle intercettazioni. Esso finisce per apparire così la sintesi degenere tra il giacobinismo della sinistra e il forcaiolismo dei 5 Stelle, tra la concezione autoritaria di Stato degli uni e la vocazione degli altri a fare tabula rasa, a epurare e purificare.
SILVIO E MATTEO
Un combinato disposto che ha avuto negli ultimi anni esito nelle aule parlamentari, dimostrando la possibilità di usare la giustizia come uno strumento di lotta per eliminare l'avversario politico (si pensi al doppio via libera per i processi a Salvini). Manconi e Graziani, con grande onestà intellettuale vista la loro ben diversa provenienza politica, fanno l'esempio di Silvio Berlusconi e della votazione per la sua decadenza da parlamentare dopo la condanna nel processo sui diritti tv Mediaset: in quel caso, in nome di logiche giustizialiste e di «antagonismi individuali», il voto per la decadenza avvenne a scrutinio palese, «rinnegando uno dei principi fondamentali del costituzionalismo moderno e del parlamentarismo democratico: la libertà e autonomia del voto».
Ma gli autori fanno anche l'esempio di Matteo Salvini coinvolto nel caso Diciotti: in quella circostanza il rigetto, da parte dell'Aula, dell'autorizzazione a procedere nei suoi confronti è stato legittimo perché «il forzato ritardo dello sbarco» era finalizzato «a perseguire un interesse pubblico», giustificato da ragioni politiche (il contrasto dell'immigrazione irregolare, il controllo delle frontiere, la necessità di redistribuire i migranti), chiaramente condivisibili o meno, ma non sindacabili giuridicamente. È in questo sforzo con cui la politica prova a non farsi dettare l'agenda dalla magistratura che sta forse la salvezza per il garantismo. E la residua speranza che non finiremo tutti vittime del Travaglio di turno. Ritrovandoci, nostro malgrado, con la testa mozzata.