Gherardo Colombo, caos giustizia: "Perché avevo lasciato la magistratura e non me ne sono mai pentito"
«Nessuna nostalgia, nessun ripensamento. È stata una decisione dolorosa, ma sono contento di essermi dimesso dalla magistratura tredici anni fa. L'ho fatto perché ero arrivato a pensare che le regole si rispettano per convinzione e non per paura. Che quindi era necessario concentrarsi soprattutto sull'educazione. Credo anche per quel che riguarda le istituzioni. Se perdono credibilità, contribuiscono a indebolire il senso della collettività, con grave danno per tutto il Paese». Gherardo Colombo è uno degli indimenticabili pubblici ministeri di Tangentopoli. Partecipò all'inchiesta che ribaltò il Paese, che non è più riuscito da allora a darsi un nuovo equilibrio. «Ma il vero sconvolgimento fu la caduta del Muro di Berlino. La scomparsa delle ideologie ci ha condotto verso un nichilismo diffuso, al di là delle affermazioni di principio, ferme e categoriche ma il più delle volte espressione di moralismi ipocriti». Il caos della giustizia e la delegittimazione di molti vertici della magistratura preferisce guardarli da lontano, perché «le cose camminano lente e ho la sensazione che per poter vedere con chiarezza debba passare ancora tempo». E poi Colombo ormai ha fatto il salto, dopo un lungo percorso interiore è arrivato alla convinzione di essere più utile alla giustizia e alla società stando fuori dai tribunali, perché «serve a poco intervenire quando i fatti sono successi».
Come si fa a far rispettare le regole in Italia?
«Le regole sono strumenti che servono a ottenere risultati. Per prima cosa occorre guardare allo scopo, che secondo la Costituzione consiste nel permettere a chiunque di realizzarsi quanto gli altri. Occorre che lo scopo sia perseguito attraverso leggi il più possibile comprensibili e chiare, ma siccome le regole di una vera democrazia sono più complesse di quelle della sudditanza, è necessario che siano scritte nel modo più comprensibile possibile, e che ci si educhi alla loro comprensione e alla loro condivisione».
Come vede l'Italia oggi?
«È un periodo di grande cambiamento ed enorme confusione. Tanti punti di riferimento contrastano tra loro ed è difficile orientarsi. Mi pare diffuso un moralismo esasperato, che mette sullo stesso piano situazioni molto serie ed episodi banali. Nelle stesse persone coincidono intransigenza verso il prossimo, o il rivale, e indulgenza verso se stessi. È una contraddizione alla quale ormai non ci si preoccupa più neppure di trovare una giustificazione ideologica. Mi ricorda Mani Pulite, quando tanti italiani indignati chiedevano il rigoroso rispetto delle regole da parte altrui, ma ritenendosi liberi di violarle a piacimento».
C'è più corruzione oggi o ai tempi di Tangentopoli?
«Allora la corruzione era collegata al finanziamento illecito ai partiti, ai quali andava una fetta consistente del ricavato; era un sistema con le sue regole, che spesso prevalevano su quelle scritte nei codici. Oggi la corruzione è altrettanto diffusa, più o meno a qualsiasi livello, ma mi pare che ai piani alti sia più anarchica e meno sistematica. E, per quel che riesco a vedere, solo raramente collegata ai partiti».
Quale delle due è peggiore?
«La corruzione influisce molto negativamente sulla cultura di un Paese: conferma l'idea che la convenienza personale debba prevalere sull'interesse generale, che sia giusto avvantaggiarsi ingiustamente sugli altri; se è commessa perché ne giovi il partito danneggia direttamente anche la democrazia e credo che continuiamo a risentire anche oggi dei danni di allora».
La legge può far qualcosa?
«Penso che la corruzione non si contenga moltiplicando i reati e aumentando le pene, ma facendo vedere che danneggia anche chi la pratica. Occorrono educazione, formazione, prevenzione».
Il suo ex collega Davigo non sarebbe d'accordo
«Dice anche lui che nei Paesi anglosassoni i ragazzi non copiano a scuola perché sono convinti che, facendolo, danneggiano solo se stessi. Se le regole si comprendono, poi si applicano di conseguenza».
E i nostri ragazzi perché non hanno questa convinzione, manca l'esempio degli adulti?
«Gli adulti insegnano quel che praticano. Seguono spesso le regole della convenienza e dell'opportunismo piuttosto che quelle della Costituzione, che ha come punto di riferimento il riconoscimento della pari dignità e quindi della lealtà nei confronti di tutti. Credo che la ragione risalga nel tempo: siamo stati spesso dominati da Paesi stranieri, vediamo le istituzioni come nemiche e manchiamo di senso della comunità. Siamo il Paese dei conflitti, il nostro sport preferito è il litigio. Lo si vede anche in politica, dove sarebbe invece necessario dialogare tra diversi modi di intendere. La politica oggi consiste esclusivamente nel delegittimare l'avversario».
Cosa che spesso avviene attraverso lo strumento della giustizia e l'opera dei pubblici ministeri
«La giustizia viene tirata o si tira in mezzo».
Perché vuole abolire le carceri, dopo aver mandato in cella tanta gente?
«Non credo più che la prigione sia educativa, mi sono accorto che generalmente non serve alla sicurezza dei cittadini, e vedo che raramente rispetta le persone che ci vivono. A chi è pericoloso va impedito di poter agire a danno degli altri, ma gli vanno comunque garantiti i diritti previsti dalla Costituzione. Se il carcere garantisse spazio vitale, igiene, salute, istruzione, attività fisica e rapporti affettivi, come in altri Paesi, sarebbe meno difficile riguadagnare il trasgressore a rapporti armoniosi con la società. Ma, se guardiamo al carcere in Italia, vediamo che costituisce, salvo rare eccezioni, solo vendetta: imbarbarisce, e crea rancore, e cioè disponibilità a commettere di nuovo reati».
Il Covid-19 ha dimostrato che l'italiano in gabbia sta bene...
«Gli italiani si sono chiusi in casa non per paura delle sanzioni (peraltro tenui) ma perché pensavano che servisse a evitare il contagio, ottimo esempio dell'importanza della comunicazione. Se la gente avesse percepito il divieto di uscire come un'imposizione, l'avrebbe violato, come accade oggi con le regole sul distanziamento».
Torniamo a bomba: se l'esempio non viene dall'alto, e neppure dai magistrati, che sono i sacerdoti della giustizia in terra
«Se la cultura generale è quella della convenienza di parte e dell'opportunismo, è ovvio che ne siano contagiati anche dei magistrati. Anche per loro, però, come per qualsiasi altra categoria, non farei di ogni erba un fascio».