Ci voleva il Coronavirus per far riesplodere il Manzoni negli States
Promessi sposi
“Quest’opera ci arriva foriera di felici notizie per il mondo dei lettori. Abbiamo qui un libro uguale per densità narrativa ad almeno due romanzi di Fenimore Cooper messi insieme, scritto almeno altrettanto bene, e lo riceviamo al modesto prezzo di 42 centesimi”. Fu nel maggio 1835 che il critico letterario nonché editorialista di punta del Southern Literary Messenger -da sobrio, nei sempre più rari momenti in cui non si perdeva nel diavolo della bottiglia- accolse la prima uscita americana dei Promessi Sposi. Quel critico si chiamava Edgar Allan Poe.
Ci fu un momento in cui l’America sembrava impazzisse per gl’intrighi nuziali di Renzo e Lucia. Ma fu solo un momento. Dopo l’entusiastica recensione dell’opera tradotta come The Betrothed da parte di Poe (ne aveva apprezzato soprattutto, chissà perché, l’episodio della madre di Cecilia: “There is a power in this to which we do not scruple to give great praise”, una potenza che non ci facciamo scrupolo a lodare grandemente) la cultura Usa chiuse la porta ad Alessandro Manzoni. Troppo cattolico, troppo empatico, troppo italiano. Sicché, oggi, spiazza piacevolmente che proprio nei giorni della pandemia, l’America riscopra il Manzoni e la sua idea letteraria di contagio. La prima traduzione inglese, da quasi mezzo secolo, dei capitoli sulla peste dei Promessi Sposi è stata messa infatti online dal sito LitHibe suscitando la curiosità dei lettori per la loro attualità. Attualità che si ritrova, peraltro, in un curioso incontro tra Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University, e Michael Moore, studioso e traduttore da anni concentrato sull’opera manzoniana. L'incontro tra Albertini, bloccato a Bozzolo in provincia di Cremona in un anno sabbatico, e Moore, nella cucina della sua casa newyorchese, s’è svolto in diretta Facebook, causa il solito Covid19, nell’ambito della serie #TuttiaCasa. E’ stato istruttivo. Perché Moore ha recitato stralci dei capitoli del romanzo che uscirà in traduzione nel 2021 con The Modern Library, collana fondata negli anni 20 del secolo scorso, per fornire ai lettori americani una selezione di titoli della migliore letteratura europea. Uno dice: ci voleva il Coronavirus per rendere letteraria una tragedia epidemiologica mondiale e riattizzare l’interesse per il nostro maggior romanzo storico. Sì, ci voleva il Coronavirus. Anche perché negli States pervasi da un perenne complesso d’inferiorità culturale, finora, per evocare qualsiasi tipo di epidemia associata ad un autore europeo, si ricorreva ai francesi, a La peste di Camus. E ciò era seccante.
Ora, Moore non è un improvvisato. Non solo è l’interprete della Rappresentanza Permanente all’Onu, ma si è pure cimentato con testi di Moravia, Primo Levi ma anche Edgardo Franzosini, Fabio Genovesi, Erri De Luca. E oggi non solo egli riscopre il cesello narrativo del Manzoni, ma pure lo riaggiorna e l’innerva di elementi sociologici poco battuti, in riferimento alla descrizione della peste del 1630 pur scrivendone due secoli dopo: “Non puoi trovare descrizioni epidemiologiche più accurate, non solo della diffusione del contagio ma anche delle reazioni da parte della gente comune e dei leader politici e religiosi”. Nei Promessi sposi, come allora oggi, “si cercano molti capri espiatori mentre lo sforzo di identificare il ‘paziente zero’ si trasforma nella percezione del virus come importato da stranieri”. Afferma Moore: “Alessandro Manzoni, è in gran parte sconosciuto negli Stati Uniti. Gli ultimi capitoli del suo romanzo monumentale trattano della piaga del XVII secolo a Milano. Egli analizza i comportamenti e gli atteggiamenti umani meglio di qualsiasi altro scrittore. La cultura americana tradizionale e parrocchiale, costantemente crogiolata nel suo senso di inferiorità culturale verso la Francia. E ignora totalmente artisti del calibro di Boccaccio e Manzoni”. E n on gli si può, oggettivamente, dare torto.
La storia di Renzo e Lucia oltre Atlantico è accidentata. I Promessi Sposi approdano in America nel 1834 con traduzione di George William Featherstonhaugh geologo inglese colà emigrato, che esce a dispense settimanali sulla rivista The Metropolitan: a Miscellany of Literature and Science. Però Featherstonhaugh non si azzarda -come dovrebbe fare un traduttore serio – a trasformare l’italiano aulico del Manzoni in inglese fluente, perché dal romanzo non riesce a separare “i pensieri comici e dai raffinatissimi tocchi di umorismo”. Dopodiché, nello stesso anno esce Lucia, the Betrothed, altra versione pubblicata da George Dearborn. Il traduttore è Andrews Norton pastore della Chiesa unitaria di Boston e professore di letteratura sacra all’Università di Harvard, oltre che co-editore del The Select Journal of Foreign Periodical Literature. Norton pare impregni il libro di un cattolicesimo oltre misura. Anche tra i politici e gli uomini pubblici del tempo la notte dell’Innominato o le scene del cardinal Borromeo e di Fra Cristoforo che chiede perdono si accendono seriosi dibattiti con la Bibbia in una mano e la Costituzione americana nell’altra. D’altro canto, però, la ristampa dei Betrothed del 1834, pubblicata nel 1867 dagli editori cattolici Burns e Oates, eliminerà ogni riferimento alla monaca di Monza, l’episodio più imbarazzante per Chiesa e le tradizioni del cattolicesimo. Alla fine sarà, appunto, il laicissimo Poe a ristabilire le distanze tra narrativa e storia, spogliando di ogni eccesso religioso il suo autore (“Manzoni era ben consapevole, tanto quanto Lutero, degli abusi di quella Chiesa”). Mi auguro che per la prossima revisione non sia attenda la prossima pandemia…