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Roberto Intrallazzi, il dj che non vuole essere chiamato dj: "La dance la salverà un gruppo rock"

Leonardo Filomeno
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"Ho sempre cercato nella musica qualcosa che mi facesse stare bene, che mi rappresentasse al meglio, che tirasse fuori le emozioni che avevo dentro". A confessarlo, dopo un set all'ennesima potenza al Circus Beatclub di Brescia, è un Roberto Intrallazzi pieno di entusiasmo e di idee sempre più folli. La serata è quella del 12 febbraio, l'energia la stessa che rende inconfondibile ogni sua traccia. Con lui c'è l'inseparabile Luca Provera, l'altra metà del progetto The Cube Guys. Se vogliamo, il manifesto più completo per un dj capace di attraversare da protagonista almeno 3 epoche della musica house. La prima con gli FPI Project e con i loro classici intramontabili Rich In Paradise e Everybody. La seconda da solista e in coppia con Marco Fratty. E quella odierna col citato Provera, con cui condivide serate in ogni angolo del globo, due prestigiose etichette e una sfilza di singoli con le label più forti.

La serata Cubed era il tassello mancante?  
"Era l'upgrade che sognavamo. E il Setai di Bergamo è la scatola che ci ospita una volta al mese. L'allestimento prevede 30 cubi gonfiabili che si illuminano sopra alle teste e tanti gadget. Il 19 febbraio viene a trovarci Roger Sanchez, il 20 marzo ci spostiamo all'One Hotel di Miami con David Morales e ancora Sanchez. Anche se con qualche mese di ritardo, festeggiamo tutti insieme 10 anni di Cube Guys. Se io e Luca siamo arrivati sin qui, lo dobbiamo anche a un top dj come Sanchez: fu lui, nel 2005, il primo a credere nella nostra Te Quiero".
Non è che questa crisi del made in Italy ce la siamo un po' inventata da soli?  
"La house italiana è sempre stata un punto di riferimento all'estero, soprattutto negli anni '90. Una sera, a Cannes, Louie Vega stava per inchinarsi non appena capì di avere di fronte uno degli FPI Project. Mentre a Riccione, nell'89, quando Rich In Paradise esplose ovunque, i locali non ci volevano perché ci consideravano troppo commerciali".
 Il tempo ha deteriorato una situazione già assurda di suo? 
"Il tentativo di trasformare il club in un festival ci ha dato una bella botta. Il club nasce club. Non puoi replicare l'energia di un Tomorrowland in un contesto di mille persone. Spendere 40 mila euro per vedere un tizio che tira le torte in faccia, e concentrare tutto nell'ora in cui si esibisce, ha fatto morire il concetto stesso di serata. Nell'industria della dance, c'è stata un'operazione di marketing per far sì che la cosiddetta big room EDM, che io considero spazzatura, facesse esplodere definitivamente il fenomeno dei festival e i personaggi legati a quel mondo, che ormai non sanno più cosa fare, in quanto la macchina si inceppata. Questo perché la musica non avrà mai un tempo determinato, come avveniva con l'EDM da festival, ma si evolverà e si involverà naturalmente".
Non salvi davvero nessuno?  
"Salvo gli Swedish House Mafia: hanno lasciato nel momento in cui la macchina andava 101 all'ora, quando si era raggiunto il massimo che quella musica, nel modo giusto, poteva dare. I loro brani resteranno. Prova invece a pensare a una canzone vera dei dj numero al mondo secondo la Top 100 di DJ Mag: te ne viene in mente mezza, se va bene". 
Il futuro della dance dalle mani di chi passa? 
"Pur essendo una rock band, i Coldplay sono quelli che hanno interpretato al meglio l'andamento della pop dance, cogliendo tutte le sue sfumature. Adventure Of A Lifetime mostra quello che potrebbe essere la dance del futuro".
E quello della house?  
"La vorrei non troppo radicale, piena di contaminazioni. Nell'arte, come nella vita, solo un colore stanca. La staticità di oggi fa rima con comodità: becchi un filone e non lo molli, sennò perdi il trono. I miei set hanno sempre qualcosa di romantico, la mia musica riflette positività".
E il fatto che possa diventare pop non ti dispiace. 
"No, infatti la nostra Mawby tra un po' esce in una versione cantata dalla brava Luciana Caporaso, che ha dato pure stavolta un taglio più radiofonico. Io e Luca siamo sempre pronti a un passo del genere, che nella techno viene visto come il fumo negli occhi. Scusate, ma i musicisti veri come Beethoven o Chopin, per il fatto di essere conosciuti ovunque, si sono automaticamente sputtantati? Impossibile: restano irraggiungibili. Per paradosso, sono talmente diventati delle istituzioni pop da essere al tempo stesso underground, perché non replicabili".
Hai detto: "Oggi non vorrei essere considerato un dj".
"È una figura è inflazionata, intorno alla quale si creato un interesse spropositato. Quando ho iniziato, mettere i dischi veniva considerato un passatempo inutile. Oggi la voglia di alzarsi al mattino e di scoprire un disco nuovo è svanita. C'è solo quello che propone il top dj. Il discorso vale per un oggetto, per una tendenza, per un colore".
In fatto di pigrizia, la generazione digitale resta imbattibile.   
"Quando presi in mano il primo campionatore non stavo nella pelle all'idea di poter prendere porzioni di dischi e mettere tutto insieme. Era una cosa che mi apriva il cervello a centomila! Adesso i giovani comprano gli strumenti della Native Instruments solo perché sono attratti dalle lucine, salvo riportare tutto in negozio quando scoprono di non saperli usare. Il senso del loro ragionamento è: cosa me ne faccio della ricerca musicale se posso mixare gli mp3 col computer? La tecnologia da cui sono attratti è incredibile. Dovrebbero imparare ad usarla al 1000%, come faccio io. Altrimenti non ha senso parlare di talenti, ma di surrogati".
'Il talento è un dono', dice Cecchetto.  
"Un dono che molti giovani pensano di avere. Peccato che siano i soli a pensarlo. C'è chi ha talento nel fare musica ma non è in grado di andare bene in bicicletta. E c'è chi vuol fare il dj ma è una bomba in sella, perché ha fiato, muscoli, testa. Il secondo, oggi, proverà lo stesso a fare il dj. Perché il messaggio che passa è quello di un successo fatto di soldi, aerei e champagne". 
Ma il dj, ovviamente, è un'altra cosa. 
"Sicuramente non è la rockstar che vogliono farci credere i signori dell'EDM. Per me, è sentire ancora la pelle d'oca. E' l'emozione che può scaturire dal suono di un violino, da un giro di piano, da una voce. E' cercare della musica che ti dia forza. E' capire prima di tutti come sarà la musica del futuro. Con la consapevolezza che questo futuro non avrà nulla a che vedere col tuo passato. Altrimenti dovrei partire ogni volta dall'89, dal milione e mezzo di copie di Rich In Paradise e dal palco di Top Of The Pops con i Duran Duran e i Simply Red che quel disco mi regalò. Se avessi guardato indietro, sarei ancora fermo sulla testiera con cui composi quel brano". 
E invece eccoti qui, col tempo che è sempre dalla tua parte. 
"E soprattutto, con ancora qualcosa da dire, poco o tanto che sia. E' la dimostrazione che non può essere stata soltanto furbizia. Che tante volte sono stato capace di chinare il capo e di capire cosa stava accadendo. Provando a dare una parte di me sempre nuova a un mondo che per fortuna non ha mai smesso di cambiare e di evolversi".

 

 

 

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