Non è un manifesto politico, ma ogni pagina contiene un atto politico: nominare le ferite e mettere in scena il non detto. Vanessa Montfort , scrittrice e giornalista, autrice del bestseller Donne che comprano fiori , lo fa con precisione chirurgica mentre ci trascina in un'indagine intima e collettiva sulle complesse relazioni tra due generazioni di donne, le madri di oggi – spesso femministe della prima ora – che si confrontano con figlie che quelle libertà che loro pretendevano le hanno potute finalmente esercitate. Sì, Il club delle cattive figlie ( Feltrinelli, 2025 ) è un'indagine che ha qualcosa del giallo e molto dell'archeologia emotiva. Le figlie si colpevolizzano per ogni telefonata mancata, ogni visita saltata, ogni messaggio lasciato in sospeso. Le madri, spesso inconsapevolmente, esercitano un potere emotivo che ha radici patriarcali: “è per il tuo bene”, “mi preoccupo”, “una volta le figlie non si comportavano così”. Sotto la superficie dell'amore, il romanzo mette in discussione la cultura che ha educato le donne a servire, anche in nome dell'affetto. E Montfort lo fa senza alzare la voce, ma anche senza addolcire la verità.
Le protagoniste di questo romanzo corale – Monica, Ruth, Suselen – non si ribellano al legame materno, ma lo osservano con occhi nuovi. Monica, addestratrice di cani poliziotto, riceve sette chiamate dalla madre e non risponde. Sa di non avere torto, ma si sente comunque in colpa. Ruth è diventata psichiatra per capire le dinamiche tossiche della propria famiglia. Suselen è volata a Londra per mettere chilometri tra sé e il passato. Nessuna è una “cattiva figlia”. Ma tutte, a modo loro, smettono di essere figlie buone . E questo basta a rompere un equilibrio secolare, che poggia su un'idea precisa – e patriarcale – di dedizione femminile. Se le nonne non avevano dubbi sul ruolo femminile (madre e casalinga), le madri hanno vissuto l'urto del femminismo . Ma sono le figlie, oggi cinquantenni , ad aver goduto pienamente dei frutti di quella rivoluzione. E questo, spiega Montfort, ha creato frustrazione, incomprensioni, nuove forme di dipendenza. Soprattutto dopo la pandemia, quando molte donne si sono ritrovate contemporaneamente madri di figli adulti e figlie.
Nel libro c'è anche Gabriel , l'amico d'infanzia, che cerca la libertà “tra le nuvole”. Nessuna madre lo tampina, nessuna aspettativa lo soffocata. Il romanzo suggerisce, con discrezione ma fermezza, che il carico relazionale è ancora una responsabilità femminile. La fatica emotiva, il senso del dovere, la paura di ferire restano incollati alle donne, anche quelle che dicono di non crederci più. Per i figli maschi il legame con la madre è spesso indulgente, protetto, addirittura celebrato. Per le figlie, invece, è ancora un terreno minato, dove affermare la propria indipendenza significa tradire, ferire, deludere. Montfort non cerca vincitori. La sua scrittura è empatica, anche verso le madri. Ma è chiaro che la vera rivoluzione passa dal diritto delle figlie di dire “basta” senza sentirsi mostri.
Questo libro è una carezza ruvida a chi, davanti all'ennesimo “Hai mangiato?” della mamma, ha pensato “che palle” e un secondo dopo si è sentita una stronza. È per chi si sente sempre a metà tra la ribellione e il senso di colpa. Per chi ha capito che essere una “figlia cattiva” può voler dire, semplicemente, smettere di essere una brava bambina. Il club delle figlie cattive è un libro necessario non perché offre risposte – non lo fa, e meno male – ma perché rompe il tabù di una relazione che tutti idealizzano e pochi osano mettere in discussione.
Difficile chiudere il libro della Montfort senza sentire il bisogno di fare una telefonata. O forse no.