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Il centrodestra deve salvare Milano e non lasciarla in mano alla sinistra

Giovanni Sallusti
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Il centrodestra ha davanti a sé un’occasione formidabile per gridare la propria differenza culturale, di merito e di metodo, con il concorrente, quell’accozzaglia un tempo nota come “campo largo” e oggi ridotta a sede distaccata del Fatto Quotidiano (citazione non casuale, come vedremo). Il campo di gioco è Milano, quindi è ipso facto una partita nazionale. Parliamo della capitale economica che viene aggredita nella sua anima, nella capacità di creare, rigenerarsi, convertire la stasi in valore e i progetti in benessere diffuso. E viene aggredita da quel combinato disposto mortifero che ci trasciniamo dietro da più di trent’anni (da quando proprio a Milano s’innescò la sbronza giustizialista di Mani Pulite): l’attivismo ideologizzato della magistratura unito alla passività flebile della politica.

«Il Salva Milano finisce qui», ha detto Beppe Sala (il quale evidentemente di fronte alle toghe scopre una sudditanza istituzionale che non coltiva ad esempio verso le divise, vedi gli attacchi scomposti ai Carabinieri sul caso Ramy) dopo l’ennesima picconata giudiziaria a un modello urbanistico che significava vitalità per Milano e lavoro per i milanesi. Essì, perché l’arresto dell’ex dirigente capo dell’Urbanistica Giovanni Oggioni è solo l’ultimo episodio di una saga fatta da una ventina di inchieste della Procura meneghina, che ad oggi implicano 130 milioni di oneri di urbanizzazione non incassati e un blocco di investimenti pari a 5 miliardi di euro. Noccioline, cosa volete che siano rispetto alla crociata salvifica contro le “costruzioni selvagge”, il “cemento” e altri spettri ideologici di cui si sente evidentemente investita certa magistratura inquirente.

 

Nel mirino, in sintesi, c’è la possibilità di recuperare in verticale le cubature di edifici fatiscenti o abbandonati che si estendevano in orizzontale grazie a una semplice Scia, piuttosto che un più burocratico ed estenuante Permesso di costruire. L’abc di una metropoli occidentale, che si stava provando anche a salvare in Senato approvando un pacchetto invocato dal centrosinistra e battezzato appunto Salva Milano. Ma appena i suoi veri referenti, ovvero i piemme, hanno alzato la posta dell’inchiesta giudiziaria, Elly Schlein ha subito ordinato il contrordine compagni (manettari): «Il provvedimento muore lì». Ecco, il centrodestra, milanese e nazionale, ha una bussola sicura per rispondere alla domanda “che fare?
”: non schleinizzarsi.

Non arrendersi come il sindaco tremebondo, ma anzi rivendicare e innalzare il vessillo del Salva Milano, su cui già non a caso aveva fornito una disponibilità al dialogo ben superiore a larghi strati della maggioranza che sostiene (?) Sala. Soprattutto, non ridursi a una caricatura in bilico sull’ossimoro, non presentarsi a Milano (la berlusconiana Milano, en passant, la città delle origini e del Novantaquattro) con l’inverosimile vestito del Partito delle Procure. Non accettare una logica travagliesca al contrario (Il Fatto ieri festeggiava espressamente in prima pagina la resa di Sala), non attaccare il sindaco a rimorchio dell’inchie ste. Ma, all’opposto, attaccarne l’insipienza politica, l’incapacità di tenere la sua maggioranza unita attorno a una visione di sviluppo per Milano (l’unica possibile), l’irresponsabilità di essere rimasto in mezzo al guado. Lo diciamo perché in certi mondi storici della destra milanese, già abbagliati dal furore giustizialista nel 1992, la tentazione è forte. E sarebbe il suicidio perfetto.

 

 

 

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