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Nebbia a Milano, la schighera copre tutto per svelare l'essenziale

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«È l’incertezza che affascina. La nebbia rende le cose meravigliose». Oscar Wilde, uomo del nord, aduso alle brume britanniche, ma dallo sguardo smagato sulla realtà, aveva colto alla perfezione l’essenza della nebbia e le ragioni dell’amore che i lombardi e i milanesi in particolare portano a questo fenomeno atmosferico, invasivo e sfuggente, infido, che va e viene, che si scioglie in una ariosa giornata di sole e poi si richiude, di nuovo, in una stanza fumosa e che loro chiamano “scighera”, proprio a indicare la sua natura bagnata e scivolosa.

Chi arriva a Milano, da sempre, vede la nebbia e si stranisce con orrore. I milanesi, invece, cercano quello che c’è oltre, i confini galleggianti nel lucore che rivelano gli oggetti e conferiscono loro un significato altro, più vero perché ricercato. È questo che Ernest Hemingway, conducente di autoambulanze durante la Prima guerra mondiale, vide nel suo soggiorno forzato sotto la Madonnina, uscendo dall’ospedale dove era curato in via Armorari. «C’era nebbia nella piazza e quando vi arrivammo vicino, la facciata della cattedrale ci parve enorme e la pietra era bagnata. Attraversammo l’estremità della piazza e ci voltammo a guardare la cattedrale. Era bella nella nebbia», ricorda in Addio alle armi, perché, in effetti, nella scighera il Duomo svela la sua vera ragion d’essere, l’imperativo metafisico di rendere visibile ciò che è Invisibile, mostrare in pietra e marmo ciò che è Spirito. (...)

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