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I sovrintendenti passano, la Scala invece resta e sopravviverà

Enrico Paoli
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I francesi di Paolo Conte, che al teatro alla Scala di Milano ha pure cantato (confezionando nel tempio della lirica un epico concerto con la cosiddetta “musica leggera”), s’incazzavano per Gino Bartali. Eccome se s’incazzavano. Perché i francesi una certa inclinazione alla stizza ce l’hanno proprio nel sangue, soprattutto quando viene toccato il loro ego. E Dominique Meyer, presentando la prossima stagione del teatro alla Scala, l’ultima da sovrintendente, ha confermato quella regola, mettendo in scena un’aria costruita su un solo accordo («Io so’ io, e voi...»), prendendosela prima con il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, e polemizzando poi con il sindaco del capoluogo lombardo, Beppe Sala, per giunta nel giorno del compleanno del primo cittadino. Un bel regalo, non c’è che dire. «Un ministro ha deciso di mandarmi in pensione dalla Scala, ma la vita va avanti», sottolinea il sovrintendente uscente, volendo sottolineare la sua idea di insostituibilità. Ora, se persino Napoleone (volendo restare nel climax francese) fu rimosso e sostituito, la Scala non può farlo con Meyer? Siamo seri, su. Il sindaco di Milano, che del teatro è il presidente, oggi incontrerà Fortunato Ortombina, ovvero la futura guida della Scala dopo l’addio di Meyer. Il nuovo sovrintendente potrebbe anche fare meno dell’attuale numero uno, ma anche molto meglio. Magari volando sopra, come Bartali, per dire.

E l’assenza del primo cittadino dallo show del francese, forse, non è stata affatto un caso. A chi andava chiedendo al sovrintendente uscente se avesse deciso se accettare o meno la proroga del contratto che gli è stata offerta dal cda, fino ad agosto 2025, Meyer ha risposto in modo sibillino. «Non lo so neanche io, vedremo ma mi hanno fatto aspettare due anni e mezzo per darmi il risultato di questa discussione e possono aspettare qualche mese, credo».

 

 

Come è noto Meyer avrebbe voluto continuare a guidare la Scala e sperava in un rinnovo del mandato da parte del consiglio di amministrazione, presieduto appunto da Sala. Possibilità che è stata esclusa con la nomina del successore. Un cambio della guardia, quello fra Meyer e Ortombina, non certo figlio di un vezzo del ministro, ma imposto dalla legge varata dal governo, stabilendo il limite dei 70 anni. Se Meyer vuole anche scriversi la legge per stabilire sino a quando restare in carica, non deve fare altro che bussare a Palazzo Chigi. Poi ci faccia sapere. Ma al di là degli aspetti amministrativi, definiamoli così, a colpire è l’idea dell’indispensabilità esternata da Meyer, come se lui fosse la Scala, quando la Scala è grande di suo e gli uomini che la gestiscono sono solo di passaggio, come i protagonisti delle opere messe in scena. Difficile non pensare al famoso gesto di Napoleone, in occasione della sua incorazione a Re d’Italia.

Accostatosi all’altare, Bonaparte prese la corona ferrea, se la mise in capo su quella imperiale e pronunciò le famose parole: «Dio me l’ha data, guai a chi la tocca». Ecco, la Scala non è una corona, ma un prezioso pezzo della cultura italiana, uno strategico tassello dell’industria culturale del Belpaese, senza, con questo, voler essere sciovisti. Ci manchebbe. Detto ciò nessuno nega a Meyer quanto fatto a Milano. «Ho diretto l’Opéra di Parigi, Losanna, il Théâtre des Champs-Élysées, la Staatsoper di Vienna e poi ho avuto la fortuna di venire alla Scala. Qua sono stato accolto e tutta la squadra è diventata la mia famiglia. Abbiamo rivoltato la Scala da capo a piedi», spiega Meyer, una Scala «modernizzata che può andare nel futuro». «Il bilancio 2023 si è chiuso con un utile di 8,7 milioni», rivendica. Però «la durata di un mandato da sovrintendente non è sufficiente aportare in porto un’opera contemporanea e questa è una cosa su cui bisogna riflettere», sibila il sovrintendente. Caro Meyer, mo’ce lo segniamo...

 

 

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