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Doppia sconfitta delle toghe Tutti gli errori su Marcello

Per la cassazione è da rifare il secondo grado. Salta il teorema dei rapporti Pdl-mafia. Mazzata per gli anti-Silvio

Nicoletta Orlandi Posti
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Che mazzata. La notizia, secca, è che la Cassazione ha annullato la condanna a sette anni di Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa: la Suprema corte ha disposto un «rinvio» e questo significa che il processo d'Appello dovrà essere rifatto davanti ad altri giudici, sempre a Palermo. Di converso significa che è stato giudicato inammissibile il ricorso dei pm - seconda mazzata - i quali avevano chiesto non solo una condanna più pesante, ma soprattutto che il reato fosse esteso a oltre il 1992, anno in cui la sentenza d'Appello invece lo interrompeva con l'esclusione quindi degli anni in cui nacque Forza Italia: cancellato, ergo, il tentativo di riscrivere la storia del centrodestra in chiave criminale. La terza mazzata va addirittura oltre il caso Dell'Utri con i suoi 16 anni di processi, le sue montagne di carte, i pentiti sempre nuovi: e sta tutta nelle parole che il procuratore generale Francesco Iacoviello ha usato ieri pomeriggio nella sua durissima requisitoria.  Certo, ha detto frasi a effetto, tipo che «nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri e nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». Non è poco. Ma la vera sostanza sta nei giudizi sulle «gravi lacune giuridiche» della sentenza d'appello, ossia nella «mancanza di motivazione e mancanza di specificazione» della condotta contestata a Dell'Utri, dunque in un'accusa che «non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono». Una strada che portava al vero carico da novanta della giornata di ieri: «Il concorso esterno è ormai diventato un reato autonomo, un reato indefinito al quale ormai non crede più nessuno», ha detto finalmente Iacoviello. Questo prima di aggiungere che nella sentenza annullata, parole sue, «non viene mai citata la sentenza Mannino della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere». Va spiegato - pausa tecnica - che il mostro giuridico chiamato «concorso esterno in associazione mafiosa» navigava comunque in una sua impalpabile giurisprudenza. È un reato che neppure esisterebbe: è il combinato tra il «concorso» previsto dall'articolo 110 e l'associazione mafiosa prevista dal 416 bis, qualcosa che secondo le Sezioni Unite necessitava che il «concorrente» avesse espresso con chiarezza la volontà di partecipare a programmi delinquenziali; secondo la sentenza Mannino del 2005, quella cioè che i giudici palermitani hanno finto che non esistesse, si stabiliva poi che il «partecipe» fosse colui che risultasse inserito organicamente in un'associazione mafiosa, «da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status», ma con un «concreto, specifico, consapevole, volontario contributo». Tutta roba che, nel caso di Dell'Utri o meglio delle precedenti sentenze Dell'Utri, non risulta: senza che le ricostruzioni dei pm debbano per questo risultare false. Brutto clima - Prima di parlare di questo, però, va riservata una parentesi al clima che si respirava ieri e quindi a un altro genere di comportamenti mafiosi, diciamo così: quelli di giornali come il Fatto quotidiano nella loro pretesa che la sentenza fosse rigorosamente di condanna. In passato era già accaduto che il Fatto mettesse nel mirino il giudice X in attesa della sentenza Y, ma con Aldo Grassi - il presidente della quinta sezione penale della Cassazione, chiamato appunto a decidere sul «concorso esterno» di Dell'Utri - i picciotti del giornalismo questa volta si sono superati. Un articolo non era bastato: ne hanno scritti tre per gettare sospetti preventivi su lui «amico di Corrado Carnevale», come se fosse un'infamia di per sé; hanno allungato ombre inquietanti sui criteri di assegnazione del processo proprio a Grassi; poi l'hanno mascariato per certi suoi comportamenti da procuratore nella Catania degli anni Ottanta; l'hanno intellettualmente degradato, ancora, per «le sue idee sulla riforma della giustizia: separazione delle carriere e fine dell'obbligatorietà dell'azione penale», opzioni peraltro condivise da un certo Giovanni Falcone. L'ultimo pizzino, Marco Travaglio, l'ha spedito dal Fatto di ieri: «Il collegio, per i trascorsi “carnevaleschi” del suo presidente, suscita qualche perplessità. Oggi sapremo», concludeva, «se chi attende verità e giustizia può ancora sperare». Ma è stato accontentato, evidentemente, chi attendeva falsità e ingiustizia. «Nessun torbido mistero nell'assegnazione e nella fissazione del processo» precisava ieri la presidenza della Cassazione, prima di bollare come «inaccettabili» le insinuazioni sul dirottamento del caso alla quinta sezione penale: seguiva l'illustrazione dei criteri tabellari di attribuzione dei ricorsi (predeterminati dal 2010) e una spiegazione su un'assegnazione, quella a Grassi, che è semplicemente subentrata dopo il collocamento a riposo anticipato del presidente Renato Calabrese: a meno di ritenere che anche questo facesse parte dell'oscuro disegno. Ma i comportamenti mafiosi, ieri pomeriggio, non si sono fermati. I picciotti del Fatto, dopo aver provato a contattare Dell'Utri, hanno scritto che il senatore si trovava all'estero: questo perché la sua segreteria telefonica rispondeva in spagnolo. Esaurita la cazzata, e appreso che l'imputato si trovava a Milano, si sono dedicati al procuratore generale Francesco Iacoviello dopo che si era espresso per l'annullamento della condanna: «Da Andreotti a Squillante a De Gennaro... in molti casi il procuratore generale ha ribaltato il verdetto (sic) di secondo grado», scrivevano sul loro sito. E giù racconti su quest'ennesimo nemico del popolo, colui che osò dire «Non ci sono prove sui rapporti tra Andreotti e la mafia», e che osò proporre l'assoluzione del giudice Renato Squillante, e che, ancora, osò chiedere il proscioglimento dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro per i fatti di Genova: osò e vinse, quel che è peggio. Vinse con l'appoggio dei giudici della Cassazione, se non disturba. Il punto è che disturba.  Tutto ciò detto, c'è un processo da rifare. Andrà in prescrizione nel giugno 2014, ma dovrebbero farcela. Riascolteremo per l'ennesima volta una storia, beninteso, anche verosimile: quella di un imprenditore brianzolo indubbiamente emergente (ma non così ricco) che doveva rapportarsi con le paure degli imprenditori italiani negli anni Settanta:  il timore dei sequestri, e in misura minore, qualche anno dopo, la necessità di oliare qualche ingranaggio per fare affari soprattutto in Sicilia, tipo piazzare dei nuovi ripetitori televisivi o evitare che le saracinesche delle sua Standa saltassero in aria. Qui entrava in gioco Marcello Dell'Utri, personaggio perfettamente scisso tra la sua seconda vita da «uomo del Nord» e la sua prima giovinezza da palermitano straclassico, ambiguo, sospeso in quella zona grigia che in Sicilia apparteneva a chiunque non fosse uno sbirro o non vivesse in convento. La zona grigia - Dell'Utri allenava la Bagicalupo Calcio e tra i difensori c'era il figlio del semi-boss Gaetano Cinà, mentre un certo Vittorio Mangano vegliava sulla sicurezza della squadra: ogni confine era sfumato e nondimeno lo divenne il ruolo del «mediatore» Dell'Utri, descritto schematicamente, appunto, come un berlusconiano premuroso che si faceva carico dei timori del Cavaliere e che però dall'altra mestava con Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, mafiosi di serie B che però ne conoscevano uno di serie A, Stefano Bontate. Una storia in cui Berlusconi si serve di Dell'Utri, Dell'Utri che si serve di Berlusconi e qualche mafioso perdente si serve di entrambi: il tutto in un quadro di mafiosità di piccolo cabotaggio che perdurava sino all'arrivo della mafia vera: i corleonesi, ai quali interessava il mercato della droga e il far saltare mezzo Paese, mica i tralicci di Berlusconi. E qui, da mafioso di serie C che era, Dell'Utri andava proprio a sparire. Le espressioni «mediatore» e «specifico canale di collegamento» appaiono perciò invenzioni dei giudici: così come «garante di Cosa Nostra» per Vittorio Mangano appare forse eccessivo. Se davvero Dell'Utri fosse stato il «concorrente» mafioso descritto, e non solo un palermitano che sapeva come muoversi, allora avrebbe meritato direttamente l'accusa di associazionismo mafioso che il pm Antonio Ingroia, in primo grado, aveva dapprima pensato di imputargli. Ma lo scenario reale, e non quello drammatizzato dai giudici d'Appello, probabilmente non avrebbe neppure consentito di giustificare l'incredibile reato di «concorso esterno» che è stato affibbiato a Dell'Utri. E che ora dovrà essere ri-dimostrato da capo. Il che, semplicemente, non riuscirà. di Filippo Facci

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