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Pansa L'Italia è fatta di egoisti e menefreghisti Ecco perché rimarremo un paese di Schettini

Senza autorità non c'è scampo: da Vittorio Emanuele III in poi, siamo pieni di anti-eroi e di codardi e di pochi De Falco

Giulio Bucchi
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A proposito del naufragio della Concordia e del capitano Francesco Schettino, c'è una tesi che sostiene: gli eroi non esistono più perché abbiamo abolito il principio di autorità. Questo è accaduto in Italia, ma non soltanto in casa nostra. È una tesi che mi trova del tutto d'accordo. Però mi obbliga a una domanda: quanti conoscono l'importanza di quel principio? E di ciò che ne deriva, ovvero la necessità di una gerarchia e la presenza indispensabile di qualcuno in grado di esercitare l'arte difficile del comando?  Da giovanissimo giornalista, l'autorità l'ho incontrata nel primo quotidiano che mi ha assunto: La Stampa di Giulio De Benedetti, chiamato da noi Gidibì. Nel 1960 era un signore di 70 anni, piccolo, tozzo, dal pessimo carattere, iroso e sprezzante, però un mago nel fare il giornale. Una sera, entrai nel suo ufficio per portargli il bozzone di una pagina che avevo chiusa e lo trovai a colloquio con lo scrittore Primo Levi, anche lui piccolo, ma esile e di aspetto mite. Levi stava domandando a Gidibì: «È difficile fare il direttore di giornale?». De Benedetti gli rispose, sfoggiando il solito sorriso che azzannava: «No. È sufficiente fare come si fa al circo equestre: tenere la frusta in mano e avere sempre qualcosa di pronto per sostituire un numero che non va più». Per numero Gidibì intendeva un tema diventato vecchio che aveva bisogno di un ricambio, affinché il giornale non fosse prevedibile e risultasse un prodotto fresco. Che cosa fosse la frusta è inutile spiegarlo: era il simbolo del comando, lo scettro dell'autorità esercitata con durezza, senza sconti per nessuno. De Benedetti era implacabile: se facevi bene ti premiava, se sbagliavi ti puniva. Da lui iniziava una catena gerarchica molto rigida. Il redattore capo Riccardo Giordano. Il capocronista Ferruccio Borio. I capiservizio. Sino al proto, ossia il capo della tipografia, Domenico Cagna. Il primo giorno di lavoro, il proto mi disse: «Stia attento, Pansa. Lei è laureato e sarà pure un giovanotto brillante. Però non dimentichi mai una verità: i tipografi sono la crema della classe operaia, perché noi siamo stati i primi poveri che hanno imparato a leggere e a scrivere». Come tutti i redattori, anch'io avevo paura di sbagliare. E di finire nella rete dei cosiddetti Revisori. Erano due giornalisti della Stampa, ormai in pensione, che avevano un incarico cruciale. Dovevano confrontare il numero appena uscito con i due quotidiani concorrenti: la Gazzetta del popolo e il Corriere della sera. I nostri errori o le notizie mancanti, i «buchi», venivano segnalati dai Revisori in un rapporto scritto che Gidibì leggeva nella riunione di mezzogiorno. Era un proclama rivolto ai capi servizio tenuti in piedi, anche perché nell'ufficio del direttore esisteva una sedia sola: la sua. Non sto rievocando una scena dell'Ottocento. Eravamo fra il 1960 e il 1970. Fu in quel tempo che l'autorità venne presa a picconate dal Sessantotto. In quell'epoca molti andarono in orgasmo davanti a nove parole di Bertolt Brecht, il poeta e drammaturgo tedesco: «Beato il paese che non ha bisogno di eroi». A me sembrò una follia. Forse, senza saperlo, ero già un reazionario. Pensavo, e penso ancora, che gli eroi fossero indispensabili a qualsiasi comunità. Erano un esempio per tutti. Un monito a far bene, a non sfuggire alle proprie responsabilità, a onorare l'incarico che ti sei conquistato, a indicarti come devi essere nella vita di ogni giorno, a distinguerti dagli altri. E se studiavi all'Università, a non accettare dopo un esame il 18 politico, un voto uguale per tutti. L'invenzione più nefasta e nauseante. I guasti che il Sessantotto non è riuscito a produrre in tempo, prima di estinguersi, li hanno creati molte famiglie italiane. Quando hanno smesso di dire «no» ai figli e alle figlie. La mia infanzia e poi l'adolescenza le ho vissute sotto raffiche continue di no. La scala dell'autorità era chiara. Mio padre Ernesto consigliava, mia madre Giovanna ordinava, mia nonna Caterina picchiava. In molte famiglie di oggi domina l'anarchia. Ai ragazzi è permesso tutto. Per loro, il verbo dovere è privo di senso. La conquista faticosa del proprio futuro è stata abolita. Tutto deve essere facile e senza pegni da pagare. Se fossi una carogna, direi: «Speriamo che nessuno dei fanciulli allevati così diventi il comandante di una nave». Anche nei partiti politici l'autorità è scomparsa. Nella Prima Repubblica i leader esercitavano un potere assoluto. Nel Pci nessuno osava contestare colossi come Togliatti, Longo o Berlinguer. Nel Psi a ripristinare una gerarchia aveva provveduto Craxi. La Dc, invece, finita l'epoca di De Gasperi, divenne un partito senza capi. E soltanto Dio sa in che modo riuscì a mantenere il potere per così tanti anni. Nella Seconda Repubblica le faccende dei partiti andavano già in un modo diverso. Nell'ex Pci, neppure il ruvido D'Alema riuscì a esercitare un'autorità riconosciuta da tutti i militanti e dagli elettori. Di Veltroni segretario è meglio non parlare. Nel febbraio del 2009, dopo una serie di sconfitte elettorali, all'improvviso abbandonò il posto di segretario, lasciandolo al suo vice, il povero Dario Franceschini. Senza saperlo, Uolter si comportò come uno Schettino qualsiasi. Sul versante del centrodestra, Berlusconi tentò di comandare, provando a imporre un'autorità imperiale. Ci riuscì per quasi un ventennio. Ma era troppo debole di carattere e troppo carico di vizi per dimostrare di possedere davvero una mano salda e dura. La fine del Cavaliere conferma una verità che spesso viene trascurata. Per essere il capo di una vera gerarchia, un leader di lunga durata e inattaccabile, bisogna dimostrare una qualità rara. Quella di risultare puliti in tutti gli angoli e non avere sulle mutande neppure la più microscopica delle macchie. Morale della favola? Non possiamo essere una nazione di eroi perché siamo un Paese che ha fatto dell'egoismo una virtù, del menefreghismo una regola di vita, dell'interesse personale l'undicesimo precetto. L'ex comandante Schettino è uno di noi. Anche per questo non lo terrei agli arresti, sia pure domiciliari, prima di una condanna. Allo stesso modo non confinerei nelle galere italiane i tanti accusati che aspettano un processo. Del resto, la storia d'Italia ci presenta molti antenati di Schettino che non hanno mai pagato i loro debiti. Il più celebre lo ha ricordato Alessandro Sallusti. È Vittorio Emanuele III, re d'Italia, che l'8 settembre 1943 scappa da Roma. E insieme al maresciallo Pietro Badoglio si rifugia a Brindisi, nella comoda cuccia offerta dagli inglesi. Purtroppo, in quel momento terribile per gli italiani, non ci fu nessun comandante De Falco che gli abbia gridato: «Maestà, ritorni a Roma, cazzo!». O se ci fu non venne ascoltato. Quel giorno la dinastia dei Savoia, e lo stesso istituto monarchico, cominciarono a morire. Almeno in Italia, perché in Inghilterra il re Giorgio VI, la regina e le figlie bambine se ne stavano a Londra, sotto le bombe tedesche. Quando seppe da mia madre che il re era scappato, in casa nostra la più infuriata risultò la nonna Caterina. Ringhiava: «Sono rimasta vedova a 33 anni con sei bambini da crescere. Non li ho mandati all'ospizio degli orfanelli, ho voluto allevarli da sola, facendo la fame. Questo Vittorio Emanuele è un vero maiale. Prima o poi, troverà qualcuno che gli taglierà la gola». Non andò così, perché il re morì nel suo letto, ad Alessandria d'Egitto. Ma l'albero dei vigliacchi dà sempre i suoi frutti. Accade ancora così nel 2012. Speriamo che non sia «l'anno delle trentatre disgrazie» (Caterina dixit). di Giampaolo Pansa

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