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Storia della ditta che è fallita per colpa dell'articolo 18

Una dipendente licenziata per negligenza e minacce fa ricorso: ottiene un risarcimento di 100mila euro. L'impresa non ha soldi e fa crac

Lucia Esposito
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Art. 18: un conto è teorizzarlo, un conto è viverlo sulla pelle della propria azienda con tutti i suoi effetti devastanti per l'imprenditore soprattutto in questi anni di crisi». Così scrive al ministro Fornero  e a Libero l'amministratore di un'azienda bresciana costretta a chiudere i battenti per una sentenza che la condanna a risarcire 100.000,00 euro a un dipendente incapace causa l'illegittima interruzione del rapporto di lavoro. Il risultato di  un connubio tra una legislazione di governi succubi dei sindacati e da una giurisprudenza che massacra le imprese e spalleggia la Triplice è devastante per l'economia. La musica è la stessa da decenni e nemmeno l'esecutivo dei sacrifici per tutti pare avere la forza per invertire la rotta, nonostante i richiami continui dell'Unione europea. Siamo purtroppo certi che la lettera inviata al ministro dalla nostra Lettrice rimarrà senza seguito: «La nostra ditta non riuscirà a sopravvivere alla conseguenza di questo famigerato art. 18, ma spero che Lei riesca a fare qualcosa per il futuro, affinché non si trovino nella stessa nostra situazione e non debbano vivere ciò che abbiamo vissuto noi altre aziende». La storia. Il calvario di questa azienda di produzione di macchine agricole inizia nel 2008 con l'assunzione di un'impiegata con contratto a tempo determinato della durata di 2 anni. Il comportamento della neoassunta si rivela da subito inadeguato alle regole di buona condotta aziendale: telefonate private con le linee aziendali, liti e intemperanze con chiunque: dai dirigenti all'ultimo degli impiegati, sino ai proprietari. Denunce infondate contro la ditta sia all'Asl che all'ispettorato del lavoro. Episodi di razzismo nei confronti degli operai stranieri che ne costituiscono il 70% della forza lavoro. Insomma non un buon acquisto per l'impresa bresciana, costretta a tollerare i comportamenti inqualificabili della collaboratrice sino all'ultimo indecoroso episodio. La lavoratrice (si fa per dire), al rientro dall'ennesimo periodo di malattia fittizia, non accetta il nuovo orario di lavoro e, non potendo uscire dalla fabbrica all'ora di suo gradimento, chiama i carabinieri, denunciando un sequestro di persona. I titolari, ignari della stravagante denuncia, rimangono sbigottiti all'arrivo delle Forze dell'Ordine con i mitra spianati e apprendono dagli uomini in divisa dell'allarme lanciato via filo dalla dipendente. Il fatto si risolve ovviamente in una bolla di sapone, non sussistendo i requisiti giuridici di un sequestro. L'azienda però non può tollerare oltre simili comportamenti e, dopo 10 mesi di richiami continui, decide di licenziare in anticipo l'impiegata che mina la salute aziendale. Questa impugna il licenziamento e intenta causa alla ditta. A settembre 2011 la sentenza del giudice del lavoro: i comportamenti della lavoratrice non integravano la giusta causa e il licenziamento era illegittimo a norma dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Poichè la stessa ha trovato occupazione altrove non va reintegrata, ma risarcita con 100.000,00 euro pari a 15 mensilità. Ci domanda l'amministratore: «Allora è uno sciocco il dipendente che ha svolto 30 anni di lavoro esemplare e matura un Tfr di 30.000 euro, quando in 10 mesi di non lavoro può guadagnarne il quadruplo?» Non c'è tempo per la risposta, perché l'azienda, dopo tre generazioni di duro lavoro, chiude. Era attiva dal 1923, riusciva a resistere alla crisi e a rimanere in bilico sul mercato, in attesa di tempi migliori. Ora la mazzata e il conseguente pignoramento non lasciano scampo alle 20 famiglie degli operai e a quelle dei proprietari. Si chiama equità sociale. di Matteo Mion www.matteomion.com  

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