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De Gregori contro De Andrè: Suo lavoro merito anche d'altri

Il cantautore romano: "Fabrizio si è circondato di collaborazioni. Il più grande poeta italiano del Novecento? Non esageriamo"

Giulio Bucchi
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Francesco De Gregori di paura non ne ha. Non quella di sbagliare un calcio di rigore né di certo quella di tirare una legnata ad un mito, anzi "il" mito del cantautorato italiano: Fabrizio De Andrè. Il "principe" della canzone romana e italiana anni Settanta, che già in carriera ha avuto battibecchi accesi con l'amico-nemico Roberto Venditti, intervenuto a Start su Radiouno si sbilancia e puntualizza: "Fabrizio De Andrè si è circondato di collaborazioni, quindi ciò che è ascrivibile a lui non è la gran parte del suo lavoro". Come dire: il cantore di Bocca di Rosa, Il pescatore, Amico fragile più un abile capobottega che un genio nell'arte delle sette note. Quanto detto "non gli toglie nulla, perché se non avesse avuto quell'autorevolezza insita nelle sue corde vocali la musica italiana sarebbe stata molto, molto più povera", ha continuato De Gregori, che con il collega genovese ha collaborato negli anni Settanta. E non solo: "Credo che non avrei mai fatto questo mestiere se a 12 anni non mi fossi imbattuto in canzoni come Il testamento o La guerra di Piero. Poi - aggiunge De Gregori -  il nostro rapporto si è modificato. Lui ha scritto cose molto belle, magari non tutte così fondamentali per me". Lo sfogo prosegue con quello che vuole essere un "ribilanciamento dei pesi" ma che sembra condito da un pizzico di veleno: "Per me De Andrè resta una grande voce narrante. Ma a volte si sentono dire cose iperboliche. Credo che questo non faccia bene né a lui né alla gente che deve capire e ascoltare. E credo non sarebbe piaciuto neanche a lui. Quando si dice 'è stato il più grande poeta italiano del Novecento', ecco, mi sembra una esagerazione. La poesia è altro dalla canzone".

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