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Il prof dice Heil alla Merkel Così ci farà morire tedeschi

Monti accetta i nuovi trattati e lascia le sorti dell'Italia in mano all'Europa e a un governo sovranazionale guidato da Berlino

Giulio Bucchi
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Di soppiatto, nel silenzio quasi assoluto, il governo dei tecnici ha deciso che la storia italiana dovesse andare nella direzione opposta a quella che tutte le forze politiche, nelle ultime legislature, avevano indicato. Pdl, Lega e Pd-Ds avevano legiferato affinché la direttrice lungo la quale doveva spostarsi il potere andasse dal centro verso gli organi di governo locali: Comuni e Regioni. La seconda Repubblica è stata segnata da parole d'ordine come «federalismo» e «devolution». Chi le contestava lo faceva sui dettagli dei singoli provvedimenti, non per criticare la filosofia federalista. La gara, semmai, era a chi chiedeva di fare di più: ancora meno poteri al centro, ancora più poteri alla periferia. Nemmeno un mese di governo Monti ed è già tutto finito. A Bruxelles è stato appena stabilito che il potere deve prendere la strada contraria: non verso le comunità locali italiane, ma verso un governo sovranazionale abbozzato nei giorni scorsi e definito da un nuovo trattato che sarà firmato a marzo. Un assetto europeo basato su un «patto fiscale» del quale ancora si sa poco, ma quello che si sa è molto importante: a comandare saranno i tedeschi. Non volendo fare rivoltare Winston Churchill nella tomba, gli inglesi si sono tirati indietro. Un esempio che il governo Monti ha deciso di non seguire, malgrado restino una chimera sia gli eurobond sia il ruolo di prestatrice di ultima istanza della Bce, uniche garanzie che i sacrifici chiesti agli italiani non sarebbero stati inutili. Contemporaneamente l'esecutivo ha messo una pietra tombale sul federalismo fiscale, cioè sullo spostamento dei tributi dal centro alla periferia, premessa di ogni federalismo politico. L'ufficio studi della Cgia di Mestre ha fatto il conto della serva. Il ritorno dell'Ici sulla prima casa e l'aumento degli estimi porteranno un aumento di gettito pari a 11 miliardi. Di questi, però, solo 2 andranno ai Comuni: i restanti 9 finiranno nella casse del Tesoro. «A questo punto arriva il comma 17 dell'articolo 13, che dispone la riduzione del Fondo sperimentale di riequilibrio dei Comuni delle Regioni ordinarie e dei trasferimenti statali ai Comuni delle altre Regioni, per un ammontare complessivo di 2 miliardi di euro». Risultato: lo Stato centrale, tra incassi e risparmi, guadagna 11 miliardi di euro; i Comuni, zero. Stesso discorso per le Regioni: l'aumento dell'aliquota base dell'addizionale Irpef dallo 0,9% all'1,23% porterà oltre 2,2 miliardi di euro, ma una cifra dello stesso ammontare, ricorda la Cgia, sarà sottratta alle Regioni con i tagli al Fondo sanitario nazionale e alla compartecipazione Iva che finanzia la sanità. Morale: i tributi locali aumentano, ma non un euro di queste nuove tasse va agli enti locali. L'esatto contrario di quanto previsto dal federalismo fiscale, morto così prima ancora di nascere. Comuni e Regioni, se avranno bisogno di soldi, saranno costretti ad aumentare ancora di più l'Ici-Imu o le addizionali Irpef.Se su questo nuovo assetto fiscale le Camere saranno chiamate ad esprimersi, sebbene votando un decreto i cui margini di modifica sono minimi, la «devolution» al contrario, la cessione di importanti quote della sovranità nazionale agli organismi europei, è stata decisa alle spalle del Parlamento. Realizzato cosa davvero era successo a Bruxelles, ieri i maggiorenti del Pdl hanno detto a Monti che simili stravolgimenti non possono avvenire senza l'approvazione delle Camere. Così Fabrizio Cicchitto, dinanzi a una linea che «punta a spossessare i singoli Stati di ogni sovranità sulla politica economica reale», ritiene «indispensabile che si apra in Parlamento un dibattito approfondito per dare al governo il mandato di sostenere in Europa una linea precisa». Maurizio Gasparri parla di «un intollerabile deficit di democrazia» e annuncia che il gruppo del Pdl chiederà martedì di discuterne in Parlamento. Gaetano Quagliariello non esclude addirittura che i nuovi accordi europei possano «avere ricadute immediate su iniziative in corso come la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio», e che quindi, in sostanza, serva una riforma della Carta per approvare il trattato Ue. Ma l'impressione è che decisioni così fondamentali siano già state prese, che tutto il potere sia ormai in mano ai tecnici e che il Parlamento possa solo svolgere un ruolo da notaio, come sembra fare intendere il silenzio rassegnato degli altri partiti. Vedremo presto se le cose stanno davvero così. di Fausto Carioti

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