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Londra, tirannia della City: perché Cameron dice 'no'

Il premier britannico si sfila dall'unione fiscale per tutelare gli interessi finanziari delle banche che popolano la capitale

Lucia Esposito
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Un no senza se e senza ma. Duro, secco, deciso. Il premier britannico David Cameron si è rifiutato di modificare i trattati eruropei in vista del salvataggio dell'euro e ha ha giustificato la sua scelta definendola "dura ma positiva per gli interessi del Paese". Poi ha spiegato: "Considerato che non abbiamo ottenuto garanzie, è meglio essere rimasti fuori". Restare fuori: come fecero i sudditi di Sua Maestà ai tempi della creazione della moneta unica.  "Se non si possono ottenere delle garanzie all'interno dei trattati,  allora è meglio restarne fuori - ha sottolineato l'inquilino di Downing Street -. Quello che è stato deciso non è nell'interesse della Gran Bretagna, dunque non l'ho accettato. Non potevo presentare questo  nuovo Trattato al Parlamento". Poi anche una frase ad effetto, pur con un fondo (tangibile) di verità: "Non siamo disposti a rinunciare alla nostra sovranità". Nazionalismo, certo, angolosassone sciovinismo. Ma non solo. In ballo ci sono interessi economici mostruosi. Dalla City il 10% del Pil - Per comprendere l'intransigenza di mister Cameron è necessario partire da un cifra: la City londinese produce l'equivalente del 10% del prodotto interno lordo britannico. La City londinese, vera mecca della finanza europea dove si può agire e lucrare in un clima particolarmente favorevole (sgravi fiscali, pochissimo controllo sulle operazioni, trading ad alta frequenza a livelli monstre, possibilità di aprirsi un'azienda online con pochi clic, ancor meno capitale e burocrazia pressoché inesistente), secondo Cameron non può essere ingabbiata: pena, una contrazione dell'attività del cuore pulsante dell'economia britannica. E la riforma dei Trattati della Ue va proprio in questa direzione: vuole modificare le regole sui servizi finanziari (tra le misure più semplici da comprendere e più difficili da digerire per le banche londinesi, solo per citarne una, la tassazione delle transazioni finanziarie). Non si deve poi dimenticare la stretta interconnessione tra l'economia britannica e quella statunitense, altrettanto contraria a una contrazione dei margini di manovra. I vantaggi britannici - Vi sono altri dati poi che inducono a una riflessione. I ricavi finanziari della City che derivano da operazioni svuolte all'estero sono di poco inferiori a quelle dell'intero export nazionale. Certo, la Gran Bretagna non è certo una potenza esportatrice, ma il confronte rende l'idea: Londra non è propriamente un paradiso fiscale, ma è un porto pregno di possibilità e marcatamente 'sregolato' dove gli investitori di mezzo amano convogliare i loro investimenti. Quindi Cameron - o meglio, le lobby e i parlamentari - non vogliono alcuna museruola. Fare la guerra alla City è un'impresa azzardata: basti pensare che tra i premier conservatori britannici, 4 su 5 sono caduti proprio per contrasti con il cuore finanziario di Londra. Cameron il mercato unico non lo vuole: pena, la profittabilità del suo.

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