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Facci e la sua prima alla Scala: Don Giovanni sobrio o morto?

Al via la stagione scaligera: nessun emozione per un protagonista né furfante né eroe ma solo un cinico cretino

Lucia Esposito
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Che strana Prima della Scala. Non faceva freddo, non ci sono state proteste preoccupanti (era tutta brava gente e la cosa più sovversiva, per il resto, è stata un uovo tirato contro un'auto del presidente del Consiglio) ma per il resto tutto pareva più sottotono che sobrio. Anche il pubblico sembrava  indecifrabile: non è vero che è sempre lo stesso, ieri sera per esempio c'era un tasso di signorilità apparentemente più alto - mentre più basso sembrava l'indice di chirurgia estetica - e però è lo stesso pubblico che pochi minuti più tardi si è rivelato sorprendentemente buzzurro nell'applaudire tra un'aria e l'altra, persino tra un recitativo e l'altro, come a un recital per giapponesi. Strana prima  - Si perdoni il preludio in minore - come quello, terribile, che apre l'opera - ma era davvero una strana Prima della Scala. Come tante altre, all'apparenza: era e resta la vera avanguardia del potere, anche perché le banche, qui, comandano già da una vita. Basta scorrere l'Albo dei Fondatori: a parte quelli di Diritto (tipo lo Stato, queste sciocchezze qui) l'unico Fondatore pubblico, in gerenza, resterebbe la Provincia: che infatti è stata appena abolita. Tra i fondatori privati permanenti, invece, eccoti Cariplo, Banca Popolare di Milano, Intesa San Paolo, Banca del Monte di Lombardia, Generali, più altri imbucati storici tipo Pirelli, Fininvest e Tods. Non parliamo del consiglio di amministrazione, qui sciorinato parzialmente: Ermolli-Micheli-Passera-Ponzellini-Scaroni. Pisapia e Formigoni - E i ministri, anzi «le presenze istituzionali»? Ornaghi-Cancellieri-Passera-Giarda eccetera, coi politici di vecchio conio che non se li è filati nessuno, anche se i biglietti loro riservati - e pagati - erano più di cento. Hanno fatto eccezione solo Giuliano Pisapia e Roberto Formigoni, corteggiatissimi da taccuini e telecamere. Tutto sommato, considerando che sul palco reale sedevano Monti e Napolitano, la nuova Italia tecnica & finanziaria era già tutta qui, forse da anni: e noi facevamo finta di niente. Ed era un'Italia compiaciuta, bella in tiro, ma sobria, loden dappertutto, il tutto abbordabile e democratico come può esserlo una prima della Scala, appunto: 2400 euro a biglietto, duecento ortensie e tremila rose su palco reale. Fuori a tirare pomodori (ma sobri, con poca polpa) in effetti non c'erano Mario Capanna o i soliti cretini di studenti: forse virtualmente, questa volta, c'eravamo noi tutti. Se non fosse che poi siamo entrati tranquillamente a guardare il Don Giovanni e a scrivere poi questo articolo. Lo spettacolo, dunque. L'impressione è ambivalente come lo stesso Don Giovanni mozartiano, ma senza entusiasmi di sorta: come se non ci fosse granché da elogiare e tantomeno da demolire. Da principio avevamo semplicemente pensato che ci avessero fregato: Berenboim e company in effetti sono riusciti a mandare in scena un Don Giovanni non banale ed equilibrato senza essere insapore, esplicitamente votato, per una volta, a esaltare il dissoluto come figura non solo ambigua ma anche vincente. Così sembrava. La direzione di Baremboim Preoccupava Barenboim, sinceramente: ma se l'è cavata bene. Ha iniziato con un ritardo poco scaligero e ha proposto un suono agile anche se non troppo leggero; forse, ecco: poco elastico, un po' sovraesposto nelle percussioni e non sempre trasparente negli archi. Di Barenboim, ebreo cosmpolita, preoccupava che il suo radicamento teutonico potesse avere la meglio sull'irrisolta alchimia tra il drammatico e il burlesco che il Don Giovanni rappresenta; le versioni tedesche restano quelle che furono, Furwangker era addirittura tragico, Karajan lo suonava con 14 violini primi e la sostanza restava priva di umorismo e poco incline ad accettare il Mozart «italiano», quello che lo stesso Mozart in parte era e voleva essere. Difficile conciliare il «dramma giocoso» e «l'opera semiseria» nel romanticismo tritatutto dell'Ottocento tedesco, ma eccoci, siam qui per questo. Qualche lettura su Barenboim poteva incoraggiare: aveva affermato che non c'era stato periodo che avesse passato senza suonare Mozart (e vabbé) e poi che l'aveva sempre affascinato la mescolanza di profondità e leggerezza, laddove (lo scrisse in «La Musica sveglia il tempo», Feltrinelli 2007, che ieri oltretutto vendevano nella librerias della Scala) a suo dire «in Mozart l'allegria è sempre acompagnata da qualcosa di cupo, e il cupo non è mai del tutto privo di allegria». E ancora, su misura per il Don Giovanni: «Mozart diceva che nella vita non c'è niente di morale, immorale o amorale, a meno che l'essere umano non faccia della propria vita qualcosa di morale, di immorale o di amorale». Incoraggiante. Ma c'era comunque di che essere timorosi. Tutto bene, dunque? No, ma non è detto che c'entri Barenboim. Anzi. Lui non ha sbagliato nulla, o quasi. Qualche ulteriore elogio meriterebbe semmai la sua scelta di lasciar respirare certi recitativi a dispetto di altri sin troppo velocizzati: vantiamo una lingua che merita tutta la calma e la varietà chiaroscurale possibili, qualcosa che la rende già una melodia di per sé; restituire autonomia al canto non serve soltanto a delineare un personaggio, ma anche a farci capire che cavolo di storia si sta intrecciando sul palcoscenico. Diciamo che l'operazione è riuscita per metà: anche perché, con certe voci di oggi, c'è poco da fare. Non si capisce granché, nel cantato e nelle voci di oggi: se poi le voci appartengono a stranieri foneticamente non preparatissimi nella nostra lingua (come ieri, palesemente) la morale è che i sottotitoli servono comunque, anzi. Qual è il problema, allora? Forse uno dei problemi abbiamo quasi vergogna a confessarlo, perché è sempre la stessa storia: regia e scene e costumi. È strano anche questo: a noi l'insieme è piaciuto, almeno su un piano razionale, ma ciò che lo spettacolo ne ha guadagnato, probabilmente,  lo ha perso in altre direzioni. I colori caldissimi hanno scacciato il freddo dei pannelli scorrevoli, ma non è bastato. L'assenza di profondità è stata devastante, a tratti sembrava un palco di teatro-teatro. La scenografia -  È  vero, in fondo l'opera è proprio teatro allo stato puro: e il primo a evidenziarlo, anche musicalmente, fu proprio Mozart. Però, a furia di pannelli che salgono e che scendono, mancava prospettiva, mancava, anche qui, calore e scenografia in senso stretto. Il minimale, nella scena finale, sapeva di povero e basta. Con quei vestiti, poi. Quegli smoking. Il sipario strappato iniziale, con La Scala che si specchia in se stessa (un vero e proprio specchio fluttuante) era di grande effetto, c'è da riconoscerlo: un effetto anche simbolico che esplicitava il proscenio di quel mattatore, Don Giovanni, che per definizione resta impossibile imprigionare anche in un solo e identificante registro di voce. In questo senso il cast era annunciato come «di grande livello» e tutto sommato non ci si può lamentare, ma Don Giovanni, cioè Peter Mattei, non ci è piaciuto per niente. Troppo scanzonato, cinico, distratto, ignavo, mai eclettico e realmente sfuggente. Mai eroico, soprattutto, mai pregnante, un personaggio né da odiare né da amare più di tanto. Sempre vestito come George Clooney. Forse sarebbe stato meglio quel fico del suo sostituto, Ildebrando D'Arcangelo. Don Giovanni dovrebbe essere privo di un modus riconoscibile, essere capace, cioè, di immedesimarsi in un qualsiasi Leporello e quindi nel famoso uomo della strada di cui conosce gli umori e le debolezze. Invece, alto e allampanato com'era, Peter Mattei restava inconfondibilmente se stesso. L'insopportabile Donna Anna, per contro, è stata ben portata dalla sensuale e non magra Anna Netrebko, mentre l'intramontabile Barbara Frittoli (Donna Elvira) è stata aristocratica quanto basta. Giuseppe Filianoti (Don Ottavio) era pateticamente e improbabilmente eroico, come d'uopo, e Bryn Terfel (Leporello) tremarellante ma non troppo, non abbastanza da macchiettizzarsi. Chi c'è piaciuto di più, colpo di scena, è stata Zerlina alias Anna Prohasca, una che peraltro la faccia da Zerlina ce l'ha di suo. Resta un personaggio straordinario, Zerlina: emblematicamente sincera col suo fidanzato Masetto (che ama) ma pure sincera col Don Giovanni, cui cede volentieri dopo essersi fintamente bevuta qualche balla. Siamo alla donna innamorata più dell'amore, più che dell'uomo. Chi c'è piaciuto ancor meno di Don Giovanni, se possibile, è il Commendatore, Kwangchul Youn: bassino, ormai poco potente di cassa toracica, autorevole come un vecchietto ai giardinetti col bastone. Il fantasma del Commendatore ha terrorizzati di tutto l'Otto e Novecento: quello avrebbe fatto ridere, e lo diciamo col massimo rispetto.   Effetto low- cost - Dei costumi di Brigitte Reiffenstuel, estremamente variati, non abbiamo tempo e voglia di scrivere. All'inizio del primo atti si è rischiato l'effetto low-cost, e non si riusciva a comprendere in nessun modo la necessità di rendere moderno ciò che non lo era: lo scenario agreste di Masetto & company sembrava un dopolavoro aziendale di provincia. Fa eccezione la straordinaria eleganza della scena del ballo, notata da tutti. Il celebre finale non aveva pathos. Era povero, casuale, da cronaca nera d'alto bordo. Doveva essere altro, dovrebbe essere altro: un eroismo - mai visto, nel caso - che non cede a pentimenti di sorta. Almeno questo. Noi wagneriani fradici continuiamo a preferire la versione originale e tedesca, quella che concludeva tutto con lo sprofondamento negli inferi, deprivata della postilla finto-consolatoria che era stata soppressa da tutti i teatri tedeschi ottocenteschi e abbondantemente novecenteschi. Il fascino di Don Giovanni -mai visto neanche questo, nel caso - dovrebbe rimanere intatto e troneggiare sui destini dei presenti, ridotti a comparse, a macchiette, attoniti con la loro giustizia terrena e i loro codicilli. Leporello dovrebbe essere un orfano liberato e perplesso, Donna Anna dovrebbe elaborare il lutto, gli altri sembrare patetici nel senso moderno del termine. Invece sembra che giustizia abbia trionfato neppure su un furfante, ma su un cretino. La trovata registica è buona: Don Giovanni riappare di soppiatto dall'oltretomba e li guarda sprofondare a loro volta, nel niente delle loro vite. Dovrebbe stagliarsi come un libertino, un libero pensatore, l'anti-dogma che pure appartenne al Mozart del crespuscolo: «A torto di viltate, tacciato mai sarà». Un Don Giovanni che guarda l'umanità sprofondare in se stessa e che «si burla di noi». Invece era un idiota. di Filippo Facci  

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