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Se adesso alzano le tasse l'Italia non si riprende più

Con la recessione parlare di aumento della pressione fiscale è assurdo. Servono liberalizzazioni, privatizzazioni, più mercato

Giulio Bucchi
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Il campo di battaglia non è nell'orto di casa nostra. Chi ancora lo crede elabora diagnosi sbagliate e propone medicine inappropriate. Fra questi ci sono quanti vorrebbero che Mario Monti somigliasse al re svedese del diciassettesimo secolo, Gustavo Adolfo: combattente inarrestabile, intellettuale insonne, uomo veloce, al punto d'essere definito fulmine di guerra. Credo, invece, che debba fare appello alla virtù di Quinto Fabio Massimo, detto il temporeggiatore, che fu chiamato a dittatore di Roma perché Annibale avanzava vittorioso. Nel terzo secolo avanti Cristo, il Verrucoso evitò di prenderlo di petto, lo aggirò e gli tolse rinforzi e rifornimenti, fino a sconfiggerlo. Ma come, si chiederanno alcuni, non si gridava “fate in fretta”? Sì, lo si gridava. Noi, però, sussurravamo un modo diverso di vedere le cose. Si sovrappongono due piani, uno interno e uno europeo. Il governo agirà bene se saprà tenerli in coerenza. Le grosse forze politiche ne usciranno vive, da malconce quali sono, se ne comprenderanno la trama. L'Italia è tornata in recessione. Condizione indotta da tre elementi: a. la crisi internazionale, che, difatti, deprime la crescita di tutti i paesi europei; b. la perdurante mancanza di misure che favoriscano lo sviluppo; c. il terrore che si diffonde, a piene mani, presso i cittadini (oramai non conto più le mail di quanti chiedono dove mettere i loro risparmi, il che denota, oltre all'indirizzo sbagliato, il crescere della paura). In questa situazione non solo varare la patrimoniale, ma anche solo aumentare la pressione fiscale significa curare la pressione bassa con il salasso. Il paziente s'ammoscia e collassa. Né mi convince la scappatoia retorica del “colpire i grandi patrimoni”, giacché, di suo, non significa nulla. Posto che non è un crimine possederne, sono, ovviamente, la minoranza. Il grosso del patrimonio è diffuso. Si può rendere progressiva la tassa che lo riguarda, ma il drenaggio di ricchezza avrebbe comunque l'effetto di azzoppare ulteriormente la bestia claudicante, con il rischio di farla sedere in attesa che i predatori la sbranino. Il nostro è un Paese ricco, sede d'imprese che fanno gola. Una potenza mondiale che arranca appesantita. Rimandiamo ad altro luogo l'analisi delle colpe, sta di fatto che la soluzione non è certo quella di metterle altra zavorra sul groppone. Né quella di penalizzare i consumi, perché quando i cittadini si saranno fatti venire il braccino corto, a furia di prender botte sulla mano, va a finire che si concentrano sui consumi poveri, con prodotti che importiamo. Un'aggravante, anziché un sollievo. Annunciando le imminenti misure Monti ha detto che si tratterà di uno o due decreti legge. Lo strumento è quello giusto, il contenuto è politicamente complesso. Le misure urgenti sono quelle relative alle liberalizzazioni, alle privatizzazioni e all'elasticità del mercato. Ciò significa il contrario delle menate movimentiste sulle municipalizzate che devono gestire i beni pubblici, il contrario della difesa dei posti di lavoro mediante mobilità e prepensionamenti (vedi Termini Imerese, per giunta a cura del governo che deve alzare l'età pensionabile), il contrario dei vincoli ad assunzioni, licenziamenti e fallimenti. Tutte misure che metterebbero il Partito democratico in grave sofferenza. Si può procedere anche nel campo fiscale, ma qui solo spostando i pesi: meno tasse sul lavoro e sulla produzione, di più su rendite e patrimoni. No, invece, a tasse che facciano cassa per aggredire il debito, giacché sarebbero soldi buttati via. Vedo molti coltivare una sorta di culto della stangata, in omaggio alla lussuria dell'impopolarità, emuli di quelli che sostenevano le medicine fossero efficaci solo a patto d'essere amare. Nulla di più sbagliato, perché le misure sgradevoli devono essere adottate solo quando immediatamente efficaci. Non ora, quindi, quando i nostri soldi verrebbero immolati sull'altare di un falso idolo, o, peggio, destinati a far vedere agli elettori francesi e tedeschi che gli italiani hanno sofferto e pagato abbastanza. Il problema di Monti risiede nell'equilibrio, talché queste misure siano egualmente sgradite a quanti gli assicurano la maggioranza parlamentare. Su questi fronti, però, temporeggiare significa solo perdere tempo. Meglio la versione Gustavo Adolfo. Sul piano europeo un possibile accordo si delinea all'orizzonte: i tedeschi cedono sulla riforma dei trattati, consegnando alla Bce il ruolo di vera banca centrale, ma non concedono nulla sul preventivo rigore di chi ha i conti in disordine (e noi fra questi, ma anche loro). Si può lavorarci. Qui prevale la saggezza del temporeggiare: prepararsi al riordino senza sprecarne i dolori nel momento sbagliato, vale a dire prima che al mondo e ai mercati sia stato comunicato il punto d'arrivo. In sintesi: c'è un lavoro che tocca a noi, relativo al superamento dei vincoli che deprimono la crescita da quattro lustri, procedendo con speditezza e senza tremolii; c'è un lavoro che spetta non all'asse franco-tedesco, già responsabile di troppi errori, ma alla collegialità europea, da articolarsi in modo da accompagnare la riforma dei trattati con la sua sostanziale anticipazione nel chiudere la falla degli spread, che fa defluire ricchezza dai popoli verso la speculazione. Dentro tale quadro c'è il lavoro che spetta alle forze politiche e al Parlamento, per chiudere la lunga agonia della seconda Repubblica e aprire le porte alla terza. Acrobatico? Siamo comunque per aria, e se non s'afferra il trapezio al volo c'è una sola possibile alternativa: spiaccicarsi. di Davide Giacalone

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