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Da Di Pietro agli ex An uniti: bisogna andare al voto

Cresce la corrente trasversale che preme per il ritorno alle urne. Solo l'Udc è stretta al premier Mario Monti

Giulio Bucchi
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Smettetela di invocare la Grosse Koalition. Esiste già. Va dal Pdl al Pd passando per la Lega, Nichita e Tonino Di Pietro. Sono quelli del Forza voto: un partito trasversale che sarebbe andato di corsa alle urne e ha votato la fiducia al governo Monti turandosi il naso per spirito di gruppo. Ha abbozzato un po' allineandosi all'ossequio ecumenico per l'autorevolissimo europremier. Ma quando il mito del taumaturgo bocconiano si è infranto contro le colonne del Financial Times, quelli che le urne subito hanno rialzato la testa intonando il De Profundis del governo tecnico, cavalcando proprio le critiche del quotidiano londinese. Troppo lento e troppo in odore di Prima-Seconda Repubblica il nuovo esecutivo. Molti hanno masticato amaro il pacchetto anticrisi che Mario Monti ha squadernato davanti a Merkel & Sarkò, senza averne ancora reso edotti gli italiani. Ci si aspettava che lo illustrasse e varasse nel Consiglio dei ministri di venerdì e che desse il via libera alla nomina dei viceministri e dei sottosegretari. Invece, continua a tergiversare nelle secche della partitocrazia di cui asseconda i riti, convocando in gran segreto i leader della maggioranza, smentendo il summit, per poi rassegnarsi alla confessione. Quanto basta per ridare fiato ai malpancisti, che non disdegnano di andare a braccetto con chi fino a ieri era un «coglione», uno «stronzo» o uno «stupratore della democrazia», pur di mandare gambe all'aria il governo Monti. Il primo a rilanciare l'avviso di sfratto da Palazzo Chigi al professore è un urnista della prima ora, Antonio Di Pietro. Non dovendo svezzare un leader in fasce (è lui il capo) ad avendo il vento dei sondaggi in poppa, il fondatore dell'Idv, che già aveva concesso una fiducia condizionata all'ex rettore della Bocconi, ieri ha rimesso le parentesi intorno all'esecutivo Monti. «Il governo tecnico può essere accettato per brevi periodi e per fini specifici, e adesso deve risolvere un'emergenza economica e finanziaria». Ha pure tracciato la deadline: «Una volta che viene modificata da un referendum la legge elettorale è un punto di non ritorno verso le elezioni anticipate». Il referendum anti-Porcellum è una delle mine più insidiose per il governo fresco di benedizione Ue. Il timore è che venga innescata la crisi dopo la sentenza della Consulta sui due quesiti elettorali, attesa per gennaio. Storicamente, infatti, i partiti hanno spesso fatto ricorso al voto anticipato per far slittare i referendum, che stavolta si celebrerebbero in primavera. E la tentazione accomuna un gruppo sempre più nutrito di nostalgici delle urne. Nel Pd a gridare al voto anticipato è l'eretico Stefano Fassina. Eretico per modo di dire. Si dà il caso, infatti, che il responsabile economico di via del Nazareno, di cui i Liberal alla Fioroni hanno già chiesto la testa, altro non è che il ventriloquo di Pier Luigi Bersani, colui che proclama ad alta voce ciò che il leader sogna ma non può dire. Il segretario del Pd è l'unico nel centrosinistra a incrociare le dita perché si torni presto al voto, con lui candidato premier, e non venga dissipato quel bacino di consensi riconquistato dal Pd. Per un po' Bersani ha anche fatto pubblicamente tifo per le urne, prima di soccombere alla linea veltronian-dalemiana del governo di larghe intese. A tenere alta la bandiera delle elezioni subito ci pensa Fassina, che nei giorni scorsi ha criticato apertamente alcuni diktat dell'Europa all'Italia, reclamando una risposta dura del Pd alle ingerenze comunitarie e auspicando un uscita di scena di Monti entro pochi mesi. E si è collocato così agli antipodi di Enrico Letta, paladino dei moderati che rivendicano di aver sacrificato le loro ambizioni sull'altare di una scelta di responsabilità. E rinfacciano a Fassina di fiancheggiare la capa cigiellina Susanna Camusso e Nichi Vendola, leader di Sel: un altro ultrà del voto subito, che continua a reclamare apertamente. Vendola ha persino scommesso sulla dipartita anticipata del governo Monti, complice l'ostruzionismo della Camusso e le spaccature nel Pd. Anche nel Pdl monta la tentazione di tornare subito alle urne. Ad alimentarla sono quelli che hanno detto no dall'inizio al governo Monti: gli ex An, in testa gli ex ministri Giorgia Meloni ed Altero Matteoli, l'ex titolare dell'Attuazione del programma Gianfranco Rotondi, che progetta un suo gruppo a Montecitorio, o l'ex responsabile della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, che spinge per tornare a votare fra tre mesi archiviando il governo dei non eletti. Tutti ex membri di governo che scalpitano per riprendere in mano le redini della politica, fosse pure all'opposizione, ma non ci stanno a sottostare ai diktat della tecnocrazia. Per quanto adesso abbia bisogno di tempo per riaccreditarsi agli occhi dei suoi elettori nel lavacro purificante dell'opposizione, anche la Lega spera che questo governo collassi prima del termine della legislatura, per evitare che la coalizione Pd-Pdl-Udc che lo tiene in vita si consolidi e nel 2013 ridisegni la geografia politica. Il voto anticipato oggi fa meno paura ai leghisti, che assaporano già la rimonta nei sondaggi che collocano il partito di Umberto Bossi al 7 per cento e gli attribuiscono un potenziale del 12. Tant'è che Roberto Maroni ha già riaperto lo spartito pro elezioni. L'unico contrario al voto anticipato è il leader del Terzo Polo, Pier Ferdinando Casini. È vero che l'Udc è stimata da Demos intorno al 10 per cento, ma con questa legge elettorale, se non si aggrega a uno dei due poli, è destinata a rimanere all'opposizione. di Barbara Romano

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