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La sinistra prova a farci fessi S'aggrappa all'euro-scusa

La Ue non chiede l'imposta sui beni (che si farà) ma la riforma del lavoro (che Cgil e Pd hanno bloccato)

Andrea Tempestini
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Il punto d'incontro tra il disperato bisogno di fare cassa che ha Mario Monti e le richieste della sinistra e dei sindacati che lo sosterranno è un raggiro ai danni di elettori e contribuenti. L'esecutivo voluto, anzi imposto dalla Bce e dalla Ue, varerà provvedimenti che le autorità di Bruxelles non ci hanno mai chiesto, primo tra tutti la tassa patrimoniale, e non farà alcune delle riforme più importanti che invece erano state messe nero su bianco nella famosa lettera inviata all'Italia da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. A partire dal depotenziamento del contratto unico nazionale e dalla liberalizzazione del mercato del lavoro, nella direzione di rendere più facili assunzioni e licenziamenti: strada ritenuta prioritaria dalle autorità europee, ma impraticabile per Monti se vuole avere l'appoggio della sinistra e la benevolenza dei sindacati confederali. Non è per caso che Nichi Vendola e Antonio Di Pietro, nelle ultime ore, si sono detti disponibili ad appoggiare il nuovo esecutivo. Tramite il loro alleato Pier Luigi Bersani, che da giorni è in fase avanzata di trattative con Monti, hanno avuto infatti la garanzia che la bandiera del governo dei tecnici sarà la stessa che la sinistra ha innalzato da settimane: un'imposta patrimoniale ai danni di chi possiede conti bancari e immobili, della quale sono in definizione in queste ore soglie e aliquote. Allo stesso tempo i leader della (ex) opposizione sono stati rassicurati che gli interventi su mercato del lavoro e previdenza invocati da Bruxelles resteranno in gran parte lettera morta. Questo consentirà anche ai post-comunisti di condividere il programma di Monti senza perdere la faccia dinanzi agli elettori. Come ha detto Vendola, il suo partito, Sinistra e Libertà, benché non sia presente in Parlamento, darà la «fiducia» al governo Monti per introdurre «una patrimoniale pesante», tassare le rendite finanziarie e abbattere le spese militari. La “piattaforma” su cui c'è l'accordo tra Monti e sinistra è condivisa dai sindacati confederali, favorevoli in modo unanime all'introduzione della patrimoniale. Il più entusiasta del nuovo esecutivo è il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, candidato sino all'ultimo per fare il ministro del Welfare (raccontano che alla fine sia stato lui a rinunciare all'incarico). «Sosterremo Monti sino in fondo», ha detto ieri Bonanni. Anche lui ha avuto la certezza che Monti si asterrà da interventi decisivi sul sistema previdenziale (sebbene la lettera di Trichet e Draghi invocasse «criteri di idoneità più rigorosi per le pensioni di anzianità» e chiedesse di riportare «l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico») e che il nuovo premier non intende ridurre gli stipendi degli statali (altro rimedio d'emergenza proposto nella lettera). Mentre misure ritenute indispensabili dalla Banca centrale europea non appaiono dunque nel programma che Monti sta discutendo con chi lo sosterrà, assume fondamentale importanza contabile e politica quella tassa patrimoniale che non figura da nessuna parte nelle richieste di Trichet e Draghi, né degli altri osservatori europei. Eppure si tratta di un'imposta che «nella migliore delle ipotesi sarebbe inutile, nella peggiore fatale», perché se sarà sostanziosa quanto basta per ridurre il rapporto debito-pil rappresenterà «un'altra mazzata per la crescita»: così hanno scritto due economisti stimati e super partes come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, cioè sul quotidiano che è stato lo sponsor principale di Monti a palazzo Chigi. di Fausto Carioti

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