Apocalypse Afghanistan Ergastolo al nuovo Kurtz
Il militare condannato per aver creato un "Kill team" in Afghanistan: alle vittime tagliava un dito per conservarlo come trofeo
Quando, lo scorso 15 gennaio, il sergente Calvin Gibbs ha affondato la lametta nel mignolo ancora caldo di Gal Mudin - un ragazzino afghano di soli 15 anni appena ammazzato per noia - tagliandogli il dito, Holmes e Morlock sono stati attraversati da un brivido. Di adrenalina. Eccitazione. Entusiasmo. Era l'inizio del gioco della morte e il terzo plotone della Compagnia Bravo, soldati Usa in servizio in Afghanistan, aveva appena conquistato il primo trofeo. L'idea era stata di Calvin Gibbs, il comandante del gruppo, 25 anni, veterano in Iraq, uno che si era presentato ai sottoposti mettendo una bandiera dei pirati sulla sua tenda e mostrando con orgoglio il tatuaggio sullo stinco sinistro: due fucili incrociati circondati da sei teschi, tre rossi e altrettanti blu. Quelli rossi per gli uomini ammazzati in Iraq, quelli blu per l'Afghanistan. Tanto per mettere le cose in chiaro. E per far capire che lui sì che era uno con le palle, un duro. Uno da film. Già. Benvenuti in “Apocalypse Afghanistan”. Hashish e paranoia - A Kabul, lo scorso gennaio, i tre (più altri due militari) venivano da settimane e settimane di una lunga e frustrante campagna militare. Depressione. Disinteresse. Serate passate - come è stato raccontato su “Rolling Stone” - a fumare l'hashish afgano passatogli dagli interpreti, vantando le imprese di un tempo e narrando le gesta degli eroi del cinema. Cervello annebbiato dalla droga e sete di sangue. Noia e paranoia. Fino a quando il sergente Calvin Gibbs ha deciso che adesso (ora, now) era il momento di fare qualcosa di (per la mentre malata) eccitante. Di forte. Apocalittico. Sì, Apocalypse now stile Vietnam, Marlon Brando, Colonnello Kurtz e prigionieri orribilmente mutilati. Era, dunque, il momento di passare all'azione e i cinque hanno stabilito che andava ucciso un uomo qualsiasi, un innocente. Bastava che fosse un haji (un musulmano secondo il lessico denigratorio delle truppe americane in Iraq ed in Afghanistan). Detto, fatto. È successo la mattina del 15 gennaio, dopo una ricognizione a La Mohammad Kalay, un borgo isolato di contadini. Due soldati - Holmes e Morlock, secondo la dettagliata ricostruzione pubblicata su “Rolling Stone” - si sono allontanati dall'unità e hanno raggiunto l'estremità del villaggio. Il loro sguardo assassino ha cercato una preda e ha trovato, laggiù nel campo di papaveri, il giovane contadino Gal Mudin. Poco più di un bambino. I due si sono nascosti, hanno lanciato una granata e poi, quando la bomba è esplosa, hanno finito il ragazzo sparandogli. Si sono fatti fotografare a suo fianco. Il sergente Calvin Gibbs ha giocato con il cadavere muovendogli braccia e gambe come fosse un burattino. Poi la lametta. Il mignolo. E l'adrenalina per l'inizio del gioco della morte che in seguito, nei mesi successivi, ha portato all'uccisione di almeno altri due civili innocenti. Omicidi rimasti impuniti grazie alla complice disattenzione degli ufficiali e al silenzio di numerosi commilitoni. Fino a quando, qualche mese fa, il terzo plotone della Compagnia Bravo, finalmente, è stato smascherato. Ecco il selvaggio - Ora, a quasi un anno di distanza, la corte marziale insediata nella base di Lewis-McChord presso Tacoma, nello Stato di Washington, ha giudicato il sergente Calvin Gibbs (che si è sempre dichiarato innocente) colpevole di tutti e quindici i capi d'imputazione, compresi i tre di omicidio aggravato premeditato e quello di complotto (è stato lui, hanno spiegato i suoi complici, a mettere le armi sui corpi degli afghani massacrati per far credere che fossero talebani uccisi in un legittimo scontro a fuoco), e l'ha condannato all'ergastolo. Il procuratore militare, maggiore Drè LeBlanc, ha ricordato come Gibbs e i suoi uomini fossero soliti riferirsi agli afghani come a selvaggi e, indicandolo, ha urlato: «Eccolo il selvaggio, il selvaggio è il sergente Gibbs». Decretando così che la sua fine sarà il carcere a vita. The end. di Alessandro Dell'Orto